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MEZZI DI ASSEDIO
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Re: MEZZI DI ASSEDIO
Tratto da "Le grandi battaglie del Medioevo" di Andrea Fedriani.
In linea di massima, la conquista cruenta di un caposaldo avveniva in tre fasi successive, contraddistinte da tre rispettive tipologie di macchine ossidionali: da lancio, d’approccio e d’assalto.
Lo scopo iniziale degli assedianti era, naturalmente, quello di incrinare la robustezza delle mura causando crepe o, nella migliore delle ipotesi, aprendo brecce mediante il lancio di proietti. Le macchine deputate a tale compito erano i mangani, le petriere e i trabucchi, che di solito si costruivano in loco, magari usando legno verde, sebbene la quercia fosse preferibile, quando si aveva la possibilità di scegliere. Il mangano, di varie misure, sembra essere stato introdotto in Cina e poi trasmesso agli arabi, per poi arrivare in Europa a partire dal IX secolo. Era costituito da un palo verticale su cui se ne innestava a bilanciere uno orizzontale, il cui braccio più lungo terminava con una fionda. All’estremità opposta venivano appese delle funi, che i serventi tiravano con violenza per imprimere al palo la forza necessaria a scagliare lontano il macigno contenuto nella fionda. La sua gittata poteva arrivare anche a 200 metri, e poteva lanciare proietti di peso anche superiore ai 100 chili.
Tolleno:
Molto simile nella concezione era il trabucco, anch’esso a bilanciere, sebbene la propulsione fosse dovuta al rapido abbassamento di un contrappeso di forma solitamente trapezoidale, dapprima fisso, in seguito mobile e plurimo. Si trattava di una modifica del mangano stesso, non si sa bene se avvenuta in Europa o in Persia, e comunque in un periodo posteriore alla prima crociata, nel corso del XII secolo. Il trabucco era di gran lunga la macchina più imponente e sofisticata tra quelle medievali: poteva pesare fino a 50 tonnellate, era alta fino a 15 metri ed era dotata di un braccio anche di 20 metri. Anch’esso aveva una gittata massima di 200 metri, ma era in grado, nei modelli più grandi, di lanciare proietti di oltre una tonnellata, in una fionda molto ampia fatta di corde intrecciate.
La petriera altro non era che la vecchia catapulta romana, in auge fin dai tempi della Grecia classica come palintone. Il suo meccanismo di base era la torsione di un fascio di corde, che tendevano un arco di ampiezza tra i quattro e i sei metri il quale, una volta rilasciato, liberava l’azione di un braccio a cucchiaio, nel quale si ponevano soprattutto palle di pietra, e anche sabbia, ma non solo: ad Antiochia, i crociati arrivarono a scagliare 200 teste di prigionieri musulmani. La gittata non superava i 150 metri, e il suo tiro era di gran lunga più frequente di quello delle macchine a bilanciere, ma assai meno devastante. I bizantini preferivano il simile onagro, di diretta derivazione romana, che al posto del cucchiaio aveva una fionda di rete; esso doveva il nome alla sua caratteristica di saltare in avanti con il lancio, proprio come un asino selvatico, ed era capace di raggiungere gittate di mezzo chilometro, se pur con proiettili di soli quattro chili. Altro macchinario romano perpetuato da Bisanzio era la ballista, grande balestra il cui sistema di propulsione era basato su fasci di corde, in grado di scagliare dardi con una gittata ampia quanto quella dell’onagro.
Anche gli occidentali facevano uso di macchine per lanciare dardi, che chiamavano però balestra a torno, da posta o murale, per differenziarla da quelle manuali. Dotata talvolta di ruote, essa serviva soprattutto per trapassare, con i suoi 600 metri di gittata, gli schermi di legno come i plutei, dietro i quali si nascondeva il nemico. Munita di un potente arco di legno, di metallo o di corno, lungo fino a cinque metri e teso mediante un verricello, non lanciava frecce ma giavellotti o lance, lunghe fino a cinque metri e con diametro fino a una decina di centimetri.
Il problema principale nell’avvicinarsi alle mura consisteva nell’assicurare adeguata protezione e copertura agli uomini, esposti al tiro dei difensori dagli spalti. A tal fine furono creati molti modelli di schermi e di casematte mobili. In comune, questi manufatti avevano il rivestimento, usualmente di cuoio, di pelli o di lastre metalliche, spesso rinforzato da uno strato di erba o paglia inzuppate di aceto, per evitare che il legno di cui erano costruite fosse aggredito dai proietti incendiari che arrivavano dall’alto.
La copertura più semplice, e la prima ad essere attuata per avvicinare le mura, era offerta dal pluteo, o mantelletto, semplice ma robusto schermo, dotato di ruote e, talvolta, di punte acuminate rivolte verso la fronte. Gli uomini che vi si nascondevano, spesso arcieri o balestrieri, potevano valersi di feritoie per tirare sugli avversari; in qualche caso, alcune assi erano attaccate all’intelaiatura in modo tale da poterle alzare, magari per permettere l’azione di una bombarda.
Si usavano anche i cosiddetti “drappi”, costituiti da pannelli di legno, fibre vegetali, sacchi pieni di ogni sorta di materiale, teli di cotone imbottiti di limatura di ferro e mastice, sospesi mediante due pertiche conficcate nel terreno; naturalmente, si trattava di un sistema che tornava buono anche per gli assediati, che ne facevano uso per proteggere le mura dai colpi e dai proietti nemici. Altro espediente protettivo era quello delle “porte”, sorta di tavole a soffietto, che venivano aperte e posizionate una volta raggiunta la posizione.
Il gatto, più complesso, misurava solitamente otto metri per quattro, era dotato di ruote e privo di pavimento, per consentirne la spinta agli occupanti; era previsto lo spazio per il materiale necessario a riempire il fossato antistante le mura, tipo fascine e pali, o cesti e pale per scavare e riversarvi terra, o per costruire le rampe di sostegno delle torri mobili. Spesso il lato anteriore era smontabile, per poterlo aprire una volta che il gatto arrivava a contatto delle mura, fungendo così da riparo per i minatori o gli sterratori, soggetti a piogge di acqua bollente o anche di piombo fuso. Sovente la macchina era dotata di un trapano da muro, un lungo palo con una punta metallica che un argano a quattro bracci consentiva di girare per scalzare mattoni.
Una versione più imponente del gatto era la pantera, che arrivava a misurare anche 30 metri di lunghezza e sette di larghezza, per tre di altezza. Si trattava di un macchinario molto pesante e fortemente blindato con lastre di ferro, che era necessario sospingere o trainare con bestie da soma, ed era pressoché totalmente rivestito di punte acuminate, nonché dotato di feritoie per consentire il tiro ai tanti soldati che poteva contenere.
I metodi e i macchinari per assalire le mura era quelli di più antica tradizione. Le scale, innanzitutto, spesso improvvisate o componibili, con ganci alla sommità per complicare ogni tentativo di staccarle dalle mura, e puntali alla base per ancorarle saldamente nel terreno. Alcune scale, dotate di argani, rulli e ruote, erano elevabili o mobili, tanto da essere meglio definite “ponti mobili”.
Eliopoli arietaria:
Mangano:
Ma la regina dell’assedio era la torre mobile, detta battifredo o belfredo, già in uso fin dai tempi antichi col nome di elepoli. Essa consentiva di avvicinare alle mura molte decine di uomini che trovavano riparo al suo interno, e di accedere agli spalti. I due requisiti fondamentali perché ciò avvenisse erano l’altezza della torre, che doveva superare quella delle mura, e la stabilità del terreno, che spesso era necessario rinforzare con rampe, sostegni e terrapieni per evitare che il manufatto, cui era necessaria la spinta di molti uomini – o il traino mediante carrucole, grazie a paletti fissati in precedenza alla base delle mura –, si arenasse lungo la strada.
I belfredi, dotati di ruote o di rulli, erano a più piani, solitamente almeno tre, collegati tra loro mediante scale interne. Il piano terra era affollato dai serventi che spingevano il manufatto, i livelli superiori venivano occupati non solo dai combattenti – tra cui molti arcieri e balestrieri che operavano grazie alle feritoie –, ma anche da macchine da lancio, mentre a quello intermedio, che doveva essere all’altezza degli spalti, era presente un ponte levatoio, per permettere l’accesso agli spalti stessi. Ad ogni piano c’erano scorte d’acqua o aceto per spegnere gli eventuali incendi, che le coperture di pelli e cuoio non sempre riuscivano a scongiurare. In caso di presenza di un fossato, la torre ospitava materiale per colmarlo.
Esisteva un’altra macchina in grado di permettere agli assedianti di accedere agli spalti: la cicogna, detta anche tolleno. Si trattava di una sorta di gru, al cui lungo braccio, sostenuto a bilanciere tra due pertiche innestate su una piattaforma munita di ruote, era appesa una grossa cesta, nella quale trovavano accesso gli armati. Grazie al lavoro degli addetti a terra, che tiravano il braccio con le funi, i combattenti venivano letteralmente “depositati” sugli spalti. In alternativa, la cicogna poteva servire semplicemente a issare in alto arcieri e balestrieri, i quali erano così in grado di bersagliare da vicino e dalla stessa altezza i difensori sugli spalti.
La macchina da sfondamento per eccellenza era l’ariete, non meno antica dell’elepoli. Si trattava di un lungo palo la cui estremità era costituita da una punta, uno scalpello o una testa d’ariete in metallo, che nei modelli più semplici era sorretto da un determinato numero di uomini; la sua spinta permetteva di colpire ripetutamente un singolo punto del muro per aprirvi una breccia. Nei modelli più complessi, un’impalcatura coperta da una tettoia imbottita sosteneva dall’alto il palo mediante delle funi; i serventi non dovevano far altro che caricare la trave tirandola indietro, per poi lasciarla andare contro il muro sfruttando il movimento a bilanciere.
Un altro sistema per raggiungere le mura era lo scavo di gallerie, mediante le quali i genieri arrivavano alla base della cinta muraria o delle torri e provvedevano a minarle. La procedura prevedeva che si compromettesse la stabilità della costruzione scavando un vuoto sotto di essa e puntellando lo scavo con sostegni e tavole di legno. Una volta terminato il lavoro di sterro, si riempiva l’antro così ottenuto di sterpaglie e materiali infiammabili e si dava fuoco ai puntelli; in un attimo, cedeva il terreno e ciò che vi era sopra.
Incisione raffigurante un ariete e i metodi per attenuarne gli effetti.
Ogni macchinario, naturalmente, aveva indotto gli assediati a escogitare un sistema per vanificarlo, o perlomeno per attenuarne gli effetti. I materiali incendiari erano largamente utilizzati per bersagliare le macchine, perfino quando esse erano ancora in costruzione. Contro le macchine da lancio, le mura venivano schermate da pannelli imbottiti; alle gallerie si reagiva, quando se ne rilevava l’ubicazione, con delle controgallerie; le scale erano allontanate dalle mura con pali a forchetta, e i loro occupanti bersagliati con vasi incendiari, acqua bollente, sabbia calda – che entrava nelle armature – e pietre; contro le torri mobili, infine, si scavava il terreno intorno alle mura e si creavano ampie buche riempite sommariamente, tanto per creare un’illusione di stabilità.
In linea di massima, la conquista cruenta di un caposaldo avveniva in tre fasi successive, contraddistinte da tre rispettive tipologie di macchine ossidionali: da lancio, d’approccio e d’assalto.
Lo scopo iniziale degli assedianti era, naturalmente, quello di incrinare la robustezza delle mura causando crepe o, nella migliore delle ipotesi, aprendo brecce mediante il lancio di proietti. Le macchine deputate a tale compito erano i mangani, le petriere e i trabucchi, che di solito si costruivano in loco, magari usando legno verde, sebbene la quercia fosse preferibile, quando si aveva la possibilità di scegliere. Il mangano, di varie misure, sembra essere stato introdotto in Cina e poi trasmesso agli arabi, per poi arrivare in Europa a partire dal IX secolo. Era costituito da un palo verticale su cui se ne innestava a bilanciere uno orizzontale, il cui braccio più lungo terminava con una fionda. All’estremità opposta venivano appese delle funi, che i serventi tiravano con violenza per imprimere al palo la forza necessaria a scagliare lontano il macigno contenuto nella fionda. La sua gittata poteva arrivare anche a 200 metri, e poteva lanciare proietti di peso anche superiore ai 100 chili.
Tolleno:
Molto simile nella concezione era il trabucco, anch’esso a bilanciere, sebbene la propulsione fosse dovuta al rapido abbassamento di un contrappeso di forma solitamente trapezoidale, dapprima fisso, in seguito mobile e plurimo. Si trattava di una modifica del mangano stesso, non si sa bene se avvenuta in Europa o in Persia, e comunque in un periodo posteriore alla prima crociata, nel corso del XII secolo. Il trabucco era di gran lunga la macchina più imponente e sofisticata tra quelle medievali: poteva pesare fino a 50 tonnellate, era alta fino a 15 metri ed era dotata di un braccio anche di 20 metri. Anch’esso aveva una gittata massima di 200 metri, ma era in grado, nei modelli più grandi, di lanciare proietti di oltre una tonnellata, in una fionda molto ampia fatta di corde intrecciate.
La petriera altro non era che la vecchia catapulta romana, in auge fin dai tempi della Grecia classica come palintone. Il suo meccanismo di base era la torsione di un fascio di corde, che tendevano un arco di ampiezza tra i quattro e i sei metri il quale, una volta rilasciato, liberava l’azione di un braccio a cucchiaio, nel quale si ponevano soprattutto palle di pietra, e anche sabbia, ma non solo: ad Antiochia, i crociati arrivarono a scagliare 200 teste di prigionieri musulmani. La gittata non superava i 150 metri, e il suo tiro era di gran lunga più frequente di quello delle macchine a bilanciere, ma assai meno devastante. I bizantini preferivano il simile onagro, di diretta derivazione romana, che al posto del cucchiaio aveva una fionda di rete; esso doveva il nome alla sua caratteristica di saltare in avanti con il lancio, proprio come un asino selvatico, ed era capace di raggiungere gittate di mezzo chilometro, se pur con proiettili di soli quattro chili. Altro macchinario romano perpetuato da Bisanzio era la ballista, grande balestra il cui sistema di propulsione era basato su fasci di corde, in grado di scagliare dardi con una gittata ampia quanto quella dell’onagro.
Anche gli occidentali facevano uso di macchine per lanciare dardi, che chiamavano però balestra a torno, da posta o murale, per differenziarla da quelle manuali. Dotata talvolta di ruote, essa serviva soprattutto per trapassare, con i suoi 600 metri di gittata, gli schermi di legno come i plutei, dietro i quali si nascondeva il nemico. Munita di un potente arco di legno, di metallo o di corno, lungo fino a cinque metri e teso mediante un verricello, non lanciava frecce ma giavellotti o lance, lunghe fino a cinque metri e con diametro fino a una decina di centimetri.
Il problema principale nell’avvicinarsi alle mura consisteva nell’assicurare adeguata protezione e copertura agli uomini, esposti al tiro dei difensori dagli spalti. A tal fine furono creati molti modelli di schermi e di casematte mobili. In comune, questi manufatti avevano il rivestimento, usualmente di cuoio, di pelli o di lastre metalliche, spesso rinforzato da uno strato di erba o paglia inzuppate di aceto, per evitare che il legno di cui erano costruite fosse aggredito dai proietti incendiari che arrivavano dall’alto.
La copertura più semplice, e la prima ad essere attuata per avvicinare le mura, era offerta dal pluteo, o mantelletto, semplice ma robusto schermo, dotato di ruote e, talvolta, di punte acuminate rivolte verso la fronte. Gli uomini che vi si nascondevano, spesso arcieri o balestrieri, potevano valersi di feritoie per tirare sugli avversari; in qualche caso, alcune assi erano attaccate all’intelaiatura in modo tale da poterle alzare, magari per permettere l’azione di una bombarda.
Si usavano anche i cosiddetti “drappi”, costituiti da pannelli di legno, fibre vegetali, sacchi pieni di ogni sorta di materiale, teli di cotone imbottiti di limatura di ferro e mastice, sospesi mediante due pertiche conficcate nel terreno; naturalmente, si trattava di un sistema che tornava buono anche per gli assediati, che ne facevano uso per proteggere le mura dai colpi e dai proietti nemici. Altro espediente protettivo era quello delle “porte”, sorta di tavole a soffietto, che venivano aperte e posizionate una volta raggiunta la posizione.
Il gatto, più complesso, misurava solitamente otto metri per quattro, era dotato di ruote e privo di pavimento, per consentirne la spinta agli occupanti; era previsto lo spazio per il materiale necessario a riempire il fossato antistante le mura, tipo fascine e pali, o cesti e pale per scavare e riversarvi terra, o per costruire le rampe di sostegno delle torri mobili. Spesso il lato anteriore era smontabile, per poterlo aprire una volta che il gatto arrivava a contatto delle mura, fungendo così da riparo per i minatori o gli sterratori, soggetti a piogge di acqua bollente o anche di piombo fuso. Sovente la macchina era dotata di un trapano da muro, un lungo palo con una punta metallica che un argano a quattro bracci consentiva di girare per scalzare mattoni.
Una versione più imponente del gatto era la pantera, che arrivava a misurare anche 30 metri di lunghezza e sette di larghezza, per tre di altezza. Si trattava di un macchinario molto pesante e fortemente blindato con lastre di ferro, che era necessario sospingere o trainare con bestie da soma, ed era pressoché totalmente rivestito di punte acuminate, nonché dotato di feritoie per consentire il tiro ai tanti soldati che poteva contenere.
I metodi e i macchinari per assalire le mura era quelli di più antica tradizione. Le scale, innanzitutto, spesso improvvisate o componibili, con ganci alla sommità per complicare ogni tentativo di staccarle dalle mura, e puntali alla base per ancorarle saldamente nel terreno. Alcune scale, dotate di argani, rulli e ruote, erano elevabili o mobili, tanto da essere meglio definite “ponti mobili”.
Eliopoli arietaria:
Mangano:
Ma la regina dell’assedio era la torre mobile, detta battifredo o belfredo, già in uso fin dai tempi antichi col nome di elepoli. Essa consentiva di avvicinare alle mura molte decine di uomini che trovavano riparo al suo interno, e di accedere agli spalti. I due requisiti fondamentali perché ciò avvenisse erano l’altezza della torre, che doveva superare quella delle mura, e la stabilità del terreno, che spesso era necessario rinforzare con rampe, sostegni e terrapieni per evitare che il manufatto, cui era necessaria la spinta di molti uomini – o il traino mediante carrucole, grazie a paletti fissati in precedenza alla base delle mura –, si arenasse lungo la strada.
I belfredi, dotati di ruote o di rulli, erano a più piani, solitamente almeno tre, collegati tra loro mediante scale interne. Il piano terra era affollato dai serventi che spingevano il manufatto, i livelli superiori venivano occupati non solo dai combattenti – tra cui molti arcieri e balestrieri che operavano grazie alle feritoie –, ma anche da macchine da lancio, mentre a quello intermedio, che doveva essere all’altezza degli spalti, era presente un ponte levatoio, per permettere l’accesso agli spalti stessi. Ad ogni piano c’erano scorte d’acqua o aceto per spegnere gli eventuali incendi, che le coperture di pelli e cuoio non sempre riuscivano a scongiurare. In caso di presenza di un fossato, la torre ospitava materiale per colmarlo.
Esisteva un’altra macchina in grado di permettere agli assedianti di accedere agli spalti: la cicogna, detta anche tolleno. Si trattava di una sorta di gru, al cui lungo braccio, sostenuto a bilanciere tra due pertiche innestate su una piattaforma munita di ruote, era appesa una grossa cesta, nella quale trovavano accesso gli armati. Grazie al lavoro degli addetti a terra, che tiravano il braccio con le funi, i combattenti venivano letteralmente “depositati” sugli spalti. In alternativa, la cicogna poteva servire semplicemente a issare in alto arcieri e balestrieri, i quali erano così in grado di bersagliare da vicino e dalla stessa altezza i difensori sugli spalti.
La macchina da sfondamento per eccellenza era l’ariete, non meno antica dell’elepoli. Si trattava di un lungo palo la cui estremità era costituita da una punta, uno scalpello o una testa d’ariete in metallo, che nei modelli più semplici era sorretto da un determinato numero di uomini; la sua spinta permetteva di colpire ripetutamente un singolo punto del muro per aprirvi una breccia. Nei modelli più complessi, un’impalcatura coperta da una tettoia imbottita sosteneva dall’alto il palo mediante delle funi; i serventi non dovevano far altro che caricare la trave tirandola indietro, per poi lasciarla andare contro il muro sfruttando il movimento a bilanciere.
Un altro sistema per raggiungere le mura era lo scavo di gallerie, mediante le quali i genieri arrivavano alla base della cinta muraria o delle torri e provvedevano a minarle. La procedura prevedeva che si compromettesse la stabilità della costruzione scavando un vuoto sotto di essa e puntellando lo scavo con sostegni e tavole di legno. Una volta terminato il lavoro di sterro, si riempiva l’antro così ottenuto di sterpaglie e materiali infiammabili e si dava fuoco ai puntelli; in un attimo, cedeva il terreno e ciò che vi era sopra.
Incisione raffigurante un ariete e i metodi per attenuarne gli effetti.
Ogni macchinario, naturalmente, aveva indotto gli assediati a escogitare un sistema per vanificarlo, o perlomeno per attenuarne gli effetti. I materiali incendiari erano largamente utilizzati per bersagliare le macchine, perfino quando esse erano ancora in costruzione. Contro le macchine da lancio, le mura venivano schermate da pannelli imbottiti; alle gallerie si reagiva, quando se ne rilevava l’ubicazione, con delle controgallerie; le scale erano allontanate dalle mura con pali a forchetta, e i loro occupanti bersagliati con vasi incendiari, acqua bollente, sabbia calda – che entrava nelle armature – e pietre; contro le torri mobili, infine, si scavava il terreno intorno alle mura e si creavano ampie buche riempite sommariamente, tanto per creare un’illusione di stabilità.