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Veldriss
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PAPATO E CADUTA DEGLI HOHENSTAUFEN - ROMA E PAPATO

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73. PAPATO E CADUTA DEGLI HOHENSTAUFEN - ROMA E PAPATO

La curia apparentemente celebrò piena vittoria quando il 29 ottobre 1268 la testa di Corradina cadde in Campo Morocino {l’attuale piazza deI mercato del Carmine) a Napoli, sotto la scure del carnefice di Carlo d’Angiò {ne parleremo più avanti); ma la realtà era ben diversa nei riguardi della sicurezza e potenza del papato.
Anzitutto i papi non poterono impedire che allora si sfasciasse l’impero latino in oriente la cui creazione Innocenzo III aveva un tempo vantato
come “il trionfo più splendido della vera chiesa”. (dopo le belle “prodezze” che fecero i crociati a Costantinopoli).

L’imperatore greco Paleologo, che nel 1261 riconquistò Costantinopoli, si impegnò tuttavia di vivere in buona armonia con Roma e dopo lunghe trattative si adattò a riconoscere nel concilio di Lione del 1274 il primato del seggio apostolico.

Ma questa unione puramente esteriore fra Greci e Latini rimase tale e non partorì effetti di sorta; anzi in complesso l’antagonismo dei Greci verso la cristianità latina si acuì allora invece di attenuarsi.
Un altro esempio della reale impotenza del papato ci è offerto dall’infeudamento di Carlo di Valois, un principe francese quattordicenne, nel regno di Aragona. Papa Martino IV nel 1285 dispose a suo talento di questo regno, come se ne avesse il diritto e se avesse la forza per farlo, ma non ottenne che di coprirsi di ridicolo insieme col principe, giacché non poté fare entrare effettivamente in possesso del regno il suo protetto, il quale si guadagnò semplicemente il soprannome di «re del cappello» perché il papa come simbolo dell’infeudamento gli aveva imposto non una corona ma un cappello.
Anche più manifesta si rivelò, ad onta del suo splendore esteriore e della sua onnipotenza teorica, la relativa debolezza della curia di fronte all’avventuriero ch’essa aveva preso al suo servizio per la lotta contro l’imperatore ed i suoi figli.
Carlo d’Angiò proseguì in sostanza la politica degli Hohenstaufen in Sicilia e nell’Italia meridionale e nei suoi atti che contrastavano agli interessi della curia fu ben lontano dall’esprimere quell’attitudine riguardosa e conciliante che aveva tenuto Federico Il finché Il contegno di Roma gliene aveva lasciato la possibilità. Quando poi la Sicilia scosse coi Vespri Siciliani (30 marzo 1282) il giogo oppressivo di Carlo d’Angiò, il papa fulminò la scomunica sul ribelli, ma costoro non tennero in nessun conto la sua ira e la vinsero con l’aiuto del re d’Aragona.
Dopo una lotta di venti anni lo stesso altero papa Bonifacio VIII (1295-1303) fu costretto a riconoscere i fatti compiuti in Sicilia e ritenersi fortunato che gli venissero per lo meno fatte alcune apparenti concessioni.
La curia in quest’epoca si eresse arbitra in importanti questioni interne del Portogallo, della Norvegia, della Germania, della Francia e dell’Inghilterra, ed abbatté uomini potenti, ma... ci riuscì solo quando la parte a favore della quale decise era la più forte.
Del resto In Francia, in Inghilterra, nell’Ungheria, e persino nella Germania dilaniata dalle fazioni, la curia, e lo steno altero e violento papa Bonifacio VIII, incontrò ripetutamente una resistenza che non poté superare.
Ad una conclusione analoga circa le reali condizioni del papato ci conducono i fatti seguenti. Quando Clemente IV, che aveva trionfato su Corradino, morì dopo appena 4 settimane dopo (29 nov.) la sua decapitazione, non si potè per quasi tre anni riuscire in Roma ad eleggere un papa a causa degli inconciliabili antagonismi e soprattutto a causa delle pretese di Carlo d’Angiò.
Ruggero Bacone, il grande filosofo inglese, un francescano che visse immerso nella speculazione ma mantenne pure relazioni con i grandi della terra, non escluso lo stesso papa Clemente IV, scrive nel 1271 nel suo Compendium philosophiae:
“Alla chiesa viene negato il vicario di Dio. Il mondo così manca della sua guida, e da parecchi anni il sacro seggio rimane vacante, pechè l’invidia, la gelosia e l’ambizione spadroneggiano nella curia. I cardinali cercano ciascuno di conquistarselo per sé e per i suoi aderenti, e questa è cosa che sanno tutti coloro che non vogliono disconoscere la verità”.

Uguali ostacoli ed interregni si ripeterono poi m occasione delle successive elezioni dei papi. Nei 26 anni circa che trascorsero dalla morte di Clemente IV (fine di novembre del 1268) all’elezione di Celestino V (5 luglio 1294) il seggio pontificio rimase vacante in complesso per quasi sette anni: dopo la morte di Clemente sino al 1° settembre 1271, vale a dire due anni e nove mesi, e dopo la morte di Nicola IV (principio di aprile del 1292) due anni e tre mesi, vale a dire due vacanze della complessiva durata dipiù che cinque anni; in seguito si ebbero due altre vacanze di sei mesi ciascuna, la prima dal maggio sino al novembre 1277 e la seconda dall’agosto 1280 al febbraio 1281, ed una vacanza di circa undici mesi dalla morte di Onorio IV (3 aprile 1287) sino all’elezione di Nicola IV (22 febbraio 1288). Ed ancora si dovrebbero ricordare due ulteriori vacanze di breve durata.
Nel periodo che va dal IX al XIII secolo Roma era riuscita a far riconoscere teoricamente le sue sempre maggiori pretese alla subordinazione a sé delle chiese di tutti i paesi, al sindacato sulle nomine del loro clero e sulla loro amministrazione, alla sorveglianza sulle loro dottrine e sulla loro disciplina. Il diritto canonico si era venuto costituendo a sistema, ed esso apprestava alla curia un arsenale di armi affilatissime contro ogni opposizione; di più nelle Università e specialmente a Parigi gli argomenti giuridici vennero fusi in tal modo con i dogmi della teologia scolastica che sembrò impossibile osare di contraddirvi. (ci fu più di una volta un grande falò di tutti i libri 11peniciosi11 che vi giravano e che gli studenti si passavano l’un l’altro).

Ma per l’appunto le esagerazioni della logica scolastica e le impossibilità cui arrivavano con le loro argomentazioni cavillose i giuristi clericali, la contraddizione assoluta tra la realtà e la pretesa divina natura dei papi, provocarono sul passaggio dal XIII al XIV secolo un mutamento di indirizzo nella teoria che culminò poi nel Defensor pacis di Marsilio di Padova e nella letteratura affine circa due decenni dopo la morte di Bonifacio VIII e dominò tutto il successivo periodo conciliare.

Questa corrente di idee ebbe una espressione di colorito tutt’altro che moderno nell’opuscolo scritto da uno dei consiglieri di Filippo il Bello per sostenere il diritto del re di adottare le misure di rigore che aveva adottato contro i Templari. «Il re, come servo di Dio, come campione della fede cattolica, deve vegliare alla difesa della Chiesa, perché ha da renderne conto a Dio. Tuttavia il re non ha, come gli fu consigliato da molte parti, distrutto i Templari trascurando l’autorità spirituale; egli é ricorso al papa, ma invano. Or quando il braccio destro, il potere spirituale, non difende il sacro capo di Cristo, occorre necessariamente che venga in suo aiuto il braccio sinistro, il potere temporale. E se ambedue le braccia mancano al loro dovere, spetta alle altre membra, al popolo, di levarsi a difendere Cristo».

In verità, se in ambienti di così decisiva influenza come quelli delle persone che circondavano re Filippo IV, il domatore della curia, si potevano esprimere apertamente idee simili, bisogna proprio dire che la curia distruggendo l’impero aveva distrutto le basi del proprio predominio. Queste idee del resto non erano affatto delle novità ovvero utopie di riformatori; erano i vecchi concetti soffocati, ma non spenti dalla teoria di Gregorio VII, e che fino a Gregorio VII erano stati dominanti. Anche il vecchio concetto dell’eguaglianza di tutti i vescovi non si era spento durante il XII e XIII secolo, sebbene sopraffatto dalla teoria della curia romana che gli altri vescovi fossero semplici organi della volontà del papa ed i loro benefici fossero a discrezione della curia.

Verso la metà del XII secolo esso venne proclamato in forma efficacissima proprio da uno dei più influenti rappresentanti di quelle idee e tendenze mistiche in cui avevano le loro radici le teorie canonistiche che attribuivano al papa un potere quasi divino, da Bernardo di Chiaravalle: «L’apostolo», egli scrisse nei libri de consideratione, dedicato a papa Eugenio III:
“... Lui non poteva darti più di quello che egli stesso aveva, nè egli aveva signoria terrena. Perciò tu non hai potuto ricevere da lui una simile signoria. Se tu vuoi signoria mondana, non puoi avere funzione d’apostolo. Se tu ambisci di averle entrambe, le perderai tutte e due. Ed inoltre tu allora entrerai nel novero di quegli sciagurati per i quali Dio leva il lamento: essi regnarono, ma non per mia volontà (non ex me). Sopra tutto poi ricordati che la santa chiesa romana cui presiedi per volere di Dio è la madre e non la padrona delle altre chiese e che tu non sei il padrone dei vescovi, ma semplicemente uno di essi”.

Il mondo si era lasciato sedurre dall’ideale, inebriante per la sua grandiosità, della intera cristianità unificata sotto un potere spirituale esercitante un’alta sorveglianza su tutti gli Stati; ma ogni giorno ed ogni ora emersero dei fatti che rivelarono l’impossibilità di un simile ordinamento. Il papa non riuscì a vigilare con uguale efficacia e a padroneggiare non dico l’organizzazione politica, ma nemmeno l’organizzazione ecclesiastica degli Stati, sia pure della sola Italia e dei territori più vicini all’Italia.
Certo, egli depose vescovi e concesse abbazie, accordò privilegi ecclesiastici e politici ad ordini monastici, ad università ed a città. Dei re furono costretti a inchinarsi davanti a lui, ed alla sua autorità si piegarono città della potenza di Venezia; ma si trattò sempre di interventi isolati e di successi isolati.
Al tempo di Federico Barbarossa molti vescovi tedeschi resistettero lungamente al papa; lo stesso avvenne nel XIII secolo ed in tutti i paesi. Anche la giurisdizione ecclesiastica, se in molti luoghi guadagnò in estensione e ricevette una migliore organizzazione, in parecchi altri già a quell’epoca subì delle limitazioni. Le controversie in materia di patronato in Austria dal tempo del governo di Ottocaro di Boemia furono nuovamente giudicate assai spesso dai tribunali laici. Re Giacomo Il d’Aragona restrinse di proposito i poteri della Chiesa, e la storia di Francia offre non pochi esempi dello stesso genere. Soprattutto poi occorre tener conto della influenza del diritto romano, il cui spirito in grazia del suo studio diffusosi rapidamente nelle università italiane e francesi ed anche in altre scuole più modeste d’altri paesi, si infiltrò nella mente di sempre più vaste sfere di persone influenti, e contrappose alle pretese del diritto canonico un ordinato sistema di concetti propugnanti la sovranità indipendente dello Stato.

Finì pure per tornare a danno della curia l’ingerenza che essa aveva acquistata nella nomina dei vescovi di tutti i paesi. Sotto vari titoli Roma pretese dai vescovi all’atto della loro conferma o della loro nomina somme così rilevanti che i vescovadi si coprirono spesso di debiti, specie quando si verificarono parecchie vacanze successive di titolare a brevi intervalli. Vedemmo già altrove come tutto ciò desse adito a mordaci confronti con le tasse che i vescovi un tempo avevano pagato agli imperatori e che da Roma erano state condannate come atti di simonia, benchè avessero la loro base nel dominio eminente che spettava all’imperatore sui beni ecclesiastici e fossero pienamente conformi ai principii di diritto generalmente ammessi.

Ma queste esazioni papali ebbero anche altre dannose conseguenze. Anzitutto i capitoli si videro spinti ad eleggere vescovi persone più che possibile ricche le quali fossero in grado di soddisfare del proprio la curia. Ed in secondo luogo molti vescovi vennero a trovarsi nella impossibilità di pagare i debiti incontrati per questo motivo, in base spesso a mutui contratti in Roma medesima, dove per effetto dell’affluenza dei capitali alla curia, il commercio bancario già nel XIII secolo si era grandemente sviluppato. Questi casi di insolvenza non erano rari, giacchè i debiti si ingrossavano rapidamente a causa dell’elevato tasso delle usure che raggiungeva e sorpassava il 10%, mentre le entrate dei vescovadi erano frequentemente divorate dalle guerre e da altre imposte.

Verso il 1244 l’arcivescovo di Colonia venne scomunicato perchè non pagava i suoi debiti verso banchieri romani (Sic !) e così pure per la stessa ragione nel XIII secolo furono scomunicati i vescovi di Utrecht, di Luttich, di Worms e di Regensburg. Assai notevole è inoltre che i principi della chiesa nel fare questi mutui dimenticarono il divieto canonico di esigere o di pagare usure, e consenziente o sciente la curia contrassero anche prestiti ad interesse. Qualche volta i papi o i loro legati, nominati arbitri in contestazioni relative a tali debiti, dichiararono non dovute le usure dandosi l’aria di voler seriamente applicare il divieto delle usure. Ma si trattò di concessioni passeggiere ad un concetto ormai riconosciuto antiquato ed oltrepassato nella vita reale. Del resto gli stessi papi nel XIII secolo cercarono e presero danaro ad interesse. E non pochi banchieri a loro legati lo prestavano (con chissà quale tangente da pagarsi, per avere simile beneficio).

In tutti questi fatti si rivelò la limitatezza del potere effettivo del papato e la sua soggezione a valersi dei mezzi e dei procedimenti terreni di cui non possono fare a meno di servirsi tutte le potenze politiche. Ben è vero che nel concilio di Lione (1274) papa Gregorio X apparve quasi come il vero e proprio capo di tutta la cristianità anche in materia temporale: principi ed ambasciatori di principi di tutto il mondo, non escluso l’Oriente, si affollarono attorno al suo trono per chiedere ed accettare le sue decisioni. Così pure sembrò che a lui dovesse riuscire di ripristinare l’unione con i Greci. Ma tutto ciò era semplice apparenza. I suoi successi non furono altro che frutto di circostanze momentanee. Anche allora il papato si trovava nella stessa situazione che venti anni più tardi si vuole sia stata caratterizzata da Bonifacio VIII con le seguenti frasi: «Quando tra principi e re della terra non vi è discordia il pontefice romano non può essere papa; ma se fra loro vi è discordia, allora egli è papa e ciascuno lo teme per paura dell’altro, ed egli li domina e fa ciò che vuole».
Ma l’errore grande di Bonifacio fu quello di aver inviato a Firenze - fidandosi - il Valois, che invece di sedare i tumulti preferì appoggiare i Neri; ma non per fare un favore al papa ma per cercare di trascinare i Neri - e quindi Firenze e la Toscana - nell’orbita della influenza francese sottraendola al papa.
Filippo il Bello fece di tutto per sovrapporsi a un pontefice che credeva di essere un Cesare e l’Imperatore del mondo. E come tale si comportava.
Ma la sovranità papale come la intendeva Bonifacio non doveva avere limiti, la sua potenza anche, il prestigio pure. Bonifacio le tre cose le consolidò tutte contemporaneamente con un’idea grandissima, nuova nella storia della Chiesa, nuova per Roma, singolare per tutti i cristiani d’Europa. Un’idea che servì a rinvigorire in lui la consapevolezza di avere il primato tra i sovrani della terra.
In quei giorni, un anno intero, scrive il Gregorovius "potè assaporare nella sua pienezza il senso della propria potenza quasi divina".

Bonifacio VIII (m. 1ottobre 1303) la cui vita e le cui vicende si prolungano oltre il secolo XIII, ma che appartiene ancora in sostanza al nostro periodo, offre con le sue pretese e con la sua catastrofe la miglior prova della verità di questa descrizione. Egli fece ciò che il suo animo irrequieto lo spinse a fare. Egli non rifuggì neppure dal delitto per vendicarsi dei suoi nemici, anzi non si peritò persino di esprimere apertamente i suoi audaci dubbi circa le dottrine fondamentali della Chiesa quando gli prese l’ambizione di risplendere o di impressionare.
Nell’anno 1300, la sua idea straordinaria fu quella di indire con una bolla del 22 febbraio 1300 il Giubileo. Il primo della storia. Si decretava un indulgenza plenaria per tutti coloro che nell’anno in corso avessero visitato le basiliche di S. Pietro e S. Paolo a Roma (che fu poi esteso in ogni futuro centesimo anno, in seguito ogni 50 anni, o in anni particolari).

Fu un avvenimento - come riferiscono i cronisti del tempo - che fece affluire a Roma da tutte le parti del mondo centinaia di migliaia di pellegrini (il Villani calcola che superarono di molto i due milioni) incrementando il turismo e in parallelo le finanze pontificie derivanti dalle altrettanto milioni di offerte. Ma ciò che rese al papa questa manifestazione religiosa quanto a prestigio fu enorme, oltre ad ottenere un successo di immagine grandissimo.
Quando i pellegrini assistevano alle funzioni religiose dov’era qualche volta presente anche lui Bonifacio, si assisteva a delle scene indescrivibili “giungevano fino al suo trono per gettarsi nella polvere davanti a lui come di fronte a un essere soprannaturale” (Gregorovius).

Fu un successo di affluenze grandissimo, ma di normali pellegrini, mentre i grandi sovrani a Roma non si fecero vedere, salvo il solito angioino Carlo Martello. A Bonifacio di re e principi importava poco, sotto le insegne imperiali, lui compiacendosi esclamava “sono io il Cesare, sono io l’Imperatore”.

Era una potenza illusoria, un delirio di potenza, perchè appena finito l’Anno Santo, in Francia Filippo il Bello, anche lui superbo e ambizioso, non riconosceva nessuno al di sopra di sè, pure lui nel suo regno si considerava un Cesare un Imperatore. E così entrambi impersonando questi concetti non poterono che finire in aperte ostilità. A cominciare fu però Bonifacio che con una bolla del 4 dicembre 1301 tolse al re francese alcuni privilegi che secondo lui aveva male onorato; seguì il giorno successivo un’altra bolla con la quale convocava a Roma per il novembre del 1302 in un concilio l’episcopato francese e lo stesso Filippo re di Francia, per definire una volta per tutte i rapporti tra Stato e Chiesa. E concludeva la bolla affermando che “solo il papa è stato posto da Dio; posto al di sopra di qualsiasi sovrano; per cui anche il re di Francia è sottomesso al papa”.

Non sappiamo se veramente c’erano scritte queste frasi, quando la bolla fu recapitata da un legato alla corte di Francia, nel leggerla uno zelante cancelliere di Filippo, indignato da ciò che leggeva gli strappò la bolla dalle mani e la buttò fra le fiamme del caminetto. Il legato poi a memoria riportò il contenuto scritto su un banale foglio e non sappiamo se fu lui ad aggiungere quelle frasi oppure erano state veramente vergate e siglate dal papa.

Filippo reagì facendo diffondere il contenuto delle due bolle in Francia e aggiungendo che lui nelle cose temporali non si sentiva secondo a nessuno, e nel contempo invitava a Parigi nell’aprile del 1302 il clero francese agli Stati Generali. Quando si riunirono, i prelati all’unanimità approvarono una lettera da inviare al papa con la quale protestavano per le offese rivolte al re di Francia. Filippo ne approfittò per proibire all’episcopato francese di recarsi a novembre al concilio papale indetto da Bonifacio a Roma.
Il Papa tenne ugualmente il concilio, anche perchè trentanove vescovi francesi non osservando il veto posto da Filippo andarono ugualmente a Roma (al ritorno come punizione trovarono tutti i loro beni fatti confiscare dal re).

Bonifacio al concilio fu ancora più severo contro il re di Francia, e con un’altra bolla emanata nell’assemblea (la “Unam Sanctam”) il 18 novembre, ribadì ancora più chiaramente i concetti espressi nella precedente bolla, e aggiunse che la “potestà spirituale deve ordinare e giudicare la potestà temporale” e che "la Chiesa ha due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa; quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote”.
Disapprovava fortemente la condotta dei vescovi francesi per il servilismo verso il sovrano e con la stessa bolla lanciava la “scomunica” contro “quelli che impediscono ai vescovi l’andata a Roma”. Sembrò chiara l’allusione a Filippo.

In Francia conosciuto il tenore di quest’altra bolla ne furono tutti indignati e Filippo a quel punto convocò a Parigi un concilio generale. Si cominciò a parlare di papa illegittimo, di papa eretico, di papa simoniaco, e i Colonna che erano stati scomunicati, privati dei beni, costretti a fuggire, ma erano presenti pure loro a Parigi, all’assemblea lessero il famoso "lungo" memoriale con tutte le note accuse rivolte al pontefice. Si aggiunsero quelle di Nogaret che lo accusava di essere sodomita e di aver prima fatto abdicare e poi ucciso papa Celestino V per poter lui salire e rimanere sul soglio.
Insomma si stava iniziando un vero e proprio pericoloso processo a Bonifacio, e Nogaret ebbe perfino l’incarico dal re di una missione segreta a Roma per arrestare il papa e condurlo in catene a Parigi.

Bonifacio si rese conto che la situazione non volgeva a suo favore, e con una delle solite manovre di retromarcia, inviò in tutta fretta un messo in Francia per fare una precisazione: Filippo era incorso solo indirettamente nella scomunica perchè aveva impedito ai vescovi di recarsi a Roma; poi con una delle solite ambigue trame, si rivolse ai tedeschi, e cercò l’amicizia di Alberto d’Asburgo. Questi da tempo aveva buonissimi rapporti col re di Francia. Lui era sì re di Germania ma nessun papa l’aveva mai incoronato. Bonifacio intrigò per spezzare questa alleanza franco-tedesca; si fece avanti, il 30 aprile lo incoronò re di Germania, si fece promettere solennemente che lo avrebbe difeso contro tutti i nemici, e per tale promessa-impegno gli promise l’incoronazione imperiale e re sovrano di tutti i re della terra. L’altro accettò anche se poi non tenne fede alla promessa.

Intanto in Francia un nuova assemblea degli Stati Generali, il re - compatto popolo e clero - decise di convocare un concilio ecumenico, nel mentre si apriva una sorta di istruttoria contro Bonifacio per valutare una vera e propria sua destituzione. Bonifacio riunito ad Anagni respinse tutte
le accuse francesi in un suo concistoro, e lo terminava preparando una bolla di scomunica al re che avrebbe reso pubblica 1’8 settembre 1303. Ma non fece in tempo, Nogaret in missione a Roma aveva svolto il compito assegnatogli. Preso contatti con gli avversari di Bonifacio, in prima fila i Colonna, aveva organizzato una congiura e organizzato un vero e proprio assalto al palazzo di Anagni, che avvenne il 7 settembre con il concorso anche dei cittadini di Anagni. Alla sera il palazzo - abbandonato da servi e prelati in fuga - era in mano ai congiurati. L’unico a non fuggire fu Bonifacio. Imperturbabile si vestì con tutte le sue insegne di papa, con tiara in testa, il bastone pastorale in mano, e si sedette sul trono in attesa dei drammatici eventi. L’unico a non fuggire e a non lasciare Bonifacio il cardinale Niccolò Boccasino.

L’irruzione nelle stanze papali dei ribelli era capeggiata oltre che dal Nogaret, da Sciarra Colonna; quest’ultimo dopo aver ricoperto di ingiurie Bonifacio, minaccioso gli intimò di reintegrare i due cardinali Colonna destituiti, se voleva salva la vita. Bonifacio pieno di orgoglio, fece l’indignato, respinse le condizioni e con tono sprezzante sporgendo in avanti e scoprendo la nuca gli gridò in faccia “ecco la mia testar”. Sembra
- almeno così si racconta ma non ci sono serie testimonianza - che Nogaret (altri dicono Sciarra) a quel gesto di sfida abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro. Di sicuro è che fu maltrattato e oltraggiato, soprattutto dal Colonna.

Nogaret - com’era del resto il compito affidatogli - voleva arrestarlo e portarlo a Parigi, il Colonna invece lo voleva morto. Per decidersi su cosa fare impiegarono tre giorni con tanto imbarazzo dei loro seguaci. Nel frattempo la scena della violenza, dello schiaffo, dei maltrattamenti fatti al papa, si era diffusa fuori dal palazzo, per tutta Anagni, e i cittadini - che prima avevano favorito e partecipato perfino all’assalto - a difesa del loro illustre concittadino questa volta l’assalto lo ripeterono ma per liberare Bonifacio e mettere in fuga gli indegni cospiratori.

La sera stessa Bonifacio si affacciò a ringraziare e a benedire i suoi concittadini salvatori. Rimase ad Anagni ancora per qualche giorno, poi non sentendosi sicuro nella sua stessa città, volle far ritorno a Roma e per farlo volle mettersi sotto la protezione degli Orsini. Il 25 settembre faceva il suo ingresso a Roma scortato da quattrocento cavalieri, accolto trionfalmente dal popolo tripudiante per lo scampato pericolo. Ma lo attendeva l’ultimo suo fatale errore.

Ancora una volta Bonifacio si era fidato di persone sbagliate, gli Orsini si erano finti protettori, lo avevano scortato fino a Roma, ma poi finite le feste, non lo mollarono, lo tennero prigioniero con chissà quali oscuri progetti. Questo tradimento fu l’ultimo colpo per un papa superbo che aveva una autentica divinizzazione della propria persona.

Non sappiamo se dopo i maltrattamenti di Anagni, rimase stroncato più nel fisico oppure dopo questo tradimento stroncato più nel morale, sappiamo solo che febbri forti l’incolsero e quindici giorni dopo, l’11 ottobre, moriva. Fu sepolto a S. Pietro; a ricordarlo Arnolfo del Cambio con uno stupendo monumento nella cappella Caetani, che Bonifacio si era fatta costruire nella basilica di S. Pietro di allora.

Gregorovius così commentò quel monumento: " è il monumento del papato medievale, che le potenze dell’epoca seppellirono con lui... fu l’ultimo papa a concepire l’idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo".

Come abbiamo visto in tutto il suo operato questo papa aveva una mania di grandezza. Illudendosi di essere un grande papa che doveva essere tramandato ai posteri, aveva • con questa smodata ambizione della fama postuma • con lui ancora vivo, fatto disseminare un gran numero di sue statue in ogni luogo, a Orvieto, Bologna, Anagni, Laterano, S. Pietro e un numero infinite di chiese.

Ma invece della fama, appena spirato, i suoi nemici profanarono anche la sua morte, misero in giro voci secondo le quali sarebbe morto nella più cupa disperazione attanagliato da terribili rimorsi. Sul suo trapasso sono state scritte tante cose, tante buone e tante cattive. Il cardinale Stefaneschi testimonio con altre sette cardinali alla dipartita scrisse che la sua morte fu tranquilla, serena, e confortato dagli ultimi sacramenti.
Ferreto da Vicenza scrisse invece che "...fu invaso da spirito diabolico, battendo furiosamente la testa contro il muro, fino a far sanguinare la testa incanutita•,
Francesco Pipino nel suo “Chronicon” scrive che “...nelle convulsioni si mordeva le mani come un cane”. Altri raccontano cose ignominose, che lo Scartazzini nella sua "Enciclopedia Dantesca" le riportò tutte con una certa acrimonia.
Alcuni rispolverarono la maledetta sorte che aveva predetto con una lapidaria frase Celestino V al suo carceriere "è entrato come una volpe, ha regnato come un leone, morirà come un cane".

Dante (indubbiamente anche per motivi personali, per le dolorose ripercussione che ebbero nella sua vita le lotte a Firenze causate da Bonifacio) gli diede un posto all’Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "Lo principe de’ novi farisei", anche se poi indignato per la condotta di Filippo il Bello e il suo sacrilego attentato fatto ad Anagni dai suoi emissari, lo paragonò a Cristo in croce, e lo mise nel Purgatorio (Purg. XX,86-93).

A denigrarlo, lui e la sua opera, ci si mise poi papa Clemente V (1305- 1314), per aver lasciato il Caetani la Chiesa in uno stato pietoso a causa della sua distruttiva boria e intransigenza a oltranza. L’aveva preceduto sul soglio il breve pontificato l’arrendevole e mite Benedetto Xl (1303- 1304).
A Clemente V seguì Giovanni XXII (1316-1334).

Sopra abbiamo parlato delle manie di grandezza di Bonifacio, del suo culto della personalità, della magnificenza nei suoi palazzi, del fasto e della pompa (enorme nel giubileo), delle statue disseminate un po’ ovunque, della famosa monumentale cappella in S. Pietro che doveva accogliere le sue spoglie.
Ma non ci dobbiamo meravigliare di tutto questo, erano quelli i tempi che per affermare la superiorità sulle genti (e Bonifacio era - a suo modo - effettivamente superiore ai re e principi suoi contemporanei) gli stessi popoli valutavano il potere dalla magnificienza dei palazzi, dalle feste, dal fasto, dalla pompa, cioè dalle apparenze.
Si afferma {come scrive il già citato Gregorovius) che l’ultimo pontefice del Medio Evo fu proprio Bonifacio, e anche se espresse a dismisura la sua alta dignità rendendosi perfino odioso per la sua superbia e boria, fu poi rimpianto perchè come successori seguirono papi che espressero a dismisura la loro debolezza.

Trecento anni dopo - l’11 ottobre 1605 - nel demolire la vecchia basilica, per far posto alla nuova, fu abbattuta anche la monumentale cappella della famiglia Caetani. Nel farlo fu scoperchiato il sepolcro di Bonifacio. La sua salma apparve intatta, nel volto, nelle mani. Nessuna lesione nel cranio smentendo le secolari dicerie. Trasferito nelle grotte vaticane, anche lui cominciò ad essere venerato come un grande papa. Era quello che lui aveva sempre desiderato: la fama postuma di "grande".


Oltre a costruirsi i monumenti, costruì anche i suoi adulatori, che ad ogni uscita, ad ogni celebrazione e soprattutto quanti ci furono al Giubileo le scene di isterismo collettivo, lo chiamavano ad alta voce «è Cristo sceso in terra», «è Dio degli Dei», ma in fondo Bonifacio era un pover’uomo, senza intima coerenza, senza lealtà, ed incapace di padroneggiare le sue passioni che spesso lo trascinarono a compiere atti con i quali egli disonorò non solo se stesso ma anche la chiesa a capo della quale era riuscito ad elevarsi.

Egli era stato eletto papa in maniera da far dubitare dei suoi sentimenti di rettitudine ed in circostanze atte a scuotere il papato dalle sue fondamenta. Già per questo egli si sentiva poco sicuro sul trono, e per di più la sua anima era assetata di gloria e di fama come l’anima di un condottiero del XIV e XV secolo, alla cui figura, più che a quella del sacerdote, ci richiamano anche altre caratteristiche della sua personalità.
In materia di fede e di morale egli professava le idee che erano sostenute specialmente dai seguaci del sistema del filosofo maomettano Averroe (m. nel 1193 al Marocco), allora diffuso anche tra i teologi e filosofi cristiani, che cioè era infondata la credenza nell’immortalità dell’anima, che non vi era paradiso ed inferno all’infuori che su questa terra, e che era un pazzo l’uomo che non assaporasse i godimenti che il mondo offriva ai suoi sensi.

A molti papi sono stati attribuiti dagli avversari senza fondamento i più orribili misfatti, e bisogna guardare tali accuse con molta diffidenza, ma nel caso di Bonifacio VIII le testimonianze sono così numerose e così concordi fra loro che è impossibile negarle completamente. Se anche le frasi che abbiamo sopra riportato non rispecchiano la vera convinzione di Bonifacio VIII, resta sempre che è stata una frivolezza esprimere simili idee. Ad ogni modo il tratto più saliente del suo carattere è appunto la persuasione che ad un papa era lecita ogni più smodata pretesa, era permesso ogni capriccio. «Nessuno può giudicarmi, mentre io giudico tutti, io apro e chiudo a tutti gli uomini, non esclusi i re della terra, le vie del paradiso».

E furono queste idee che lo inebriarono e lo sviarono. Ma ben presto si vide poi quanto fosse in realtà debole la sua posizione. La poca gente raccolta in Italia da Guglielmo di Nogaret bastò ad abbatterlo. Questo temerario ai servizi del re di Francia, che era altrettanto brutale e privo di riguardi quanto lo stesso Bonifacio, non si lasciò intimorire dalle minacce solenni di anatema e procede con la violenza contro il papa che opprimeva il mondo con le sue violenze. I fatti col famoso “schiaffo di Anagli” li abbiamo già narrati sopra.

Tutto il mondo vide che il papa non aveva quella potenza che si spacciava di possedere, e negli anni successivi il papato onnipotente che Bonifacio lasciò, divenne un docile strumento asservito alla corona francese. Fu perfino costretto a fargli da sgherro nel processo contro i Templari, fu costretto persino a trattare con Guglielmo di Nogaret, proprio quello che era stato scomunicato perchè aveva osato mettere le mani su Bonifacio, e che dovette prosciogliere forzatamente dalla scomunica.

Seguirono poi i tempi dello scisma, dei grandi concilii e della Riforma.

Nell’XI, XII e XIII secolo Roma ha esercitato una enorme influenza sulle sorti politiche di tutti i paesi ed in specie ha distrutto l’egemonia dell’impero tedesco e minato dalle fondamenta la monarchia tedesca su cui esso si basava coll’appoggiare ed aiutare i principi ribelli.
Dopo la caduta degli Hohenstaufen l’autorità imperiale divenne sempre più un’ombra di ciò che era stata in antico.

Ma anche le ombre dei grandi fenomeni storici continuano ad essere una forza. Se l’occasione si presenta, se i tempi lo esigono, esse riprendono corpo. Nel 1870-71 ancora le memorie dell’antico impero tedesco hanno contribuito ad eliminare gli ostacoli che si frapponevano alla formazione dell’impero germanico. Così pure nel 1848 e nel 1813-15; e negli stessi secoli succeduti alla caduta degli Hohenstaufen non mancano fatti e manifestazioni che dimostrano come l’idea dell’impero continuava a vivere nella memoria degli uomini in una forma ideale di grandezza che contrastava alla scarsa potenza ed autorità degli imperatori contemporanei.

Basterà ricordare il poema di Dante ed il suo libro della monarchia, ovvero la scena avvenuta a Coblenza nel 1338, quando il re d’Inghilterra si inginocchiò dinanzi all’imperatore tedesco e lo lasciò arbitro della sua contesa con la Francia, e finalmente le idee dei pubblicisti del tempo dello scisma e la parte rappresentata dall’imperatore Sigismondo nella convocazione e presidenza del concilio di Costanza. In tutti questi fatti il ricordo dell’impero agì come una forza capace di dare nuova vita all’ombra del passato.

Un’altra cosa va tenuta presente per giudicare rettamente della situazione reciproca del papato e dell’impero e della loro influenza sul corso degli eventi. Dopo la caduta degli Hohenstaufen i papi non sono subentrati al posto degli imperatori e gli imperatori non divennero semplici organi della volontà dei papi.
Non si arrivò, neppure in teoria, all’affermazione ed alla creazione di una autorità universale teocratica pari a quella che l’islamismo aveva creato col califfato. L’epoca del dominio politico universale era ormai passata, anche rispetto ai popoli che nel periodo che va da Carlo Maglio agli Hohenstaufen erano stati più o meno strettamente riuniti in seno all’impero. Durante i secoli Occupati dalla lotta tra il papato e l’impero erano venuti germogliando nuovi concetti politici ed erano venute sorgendo nuove potenze politiche tali che impedivano alla possibilità del perpetuarsi, anche semplicemente teorico, dell’ideale di una unità politica di tutta la cristianità sotto una guida comune.

La dignità imperiale restò riconnessa ad una di queste nuove potenze sorta da un gruppo di territori del vecchio impero ed acquistò un nuovo carattere. Essa ci si presenta come un titolo cui andavano congiunti dei diritti d’ordine elevato, cui gli altri Stati, almeno teoricamente o transitoriamente, fecero in certo modo omaggio, e che in Germania talora servirono a far guadagnare ai loro titolari un notevole aumento di potenza.

Si aggiunga che il papa per la natura stessa dei mezzi di cui poteva disporre a sostegno della sua autorità non era in grado di esercitare le funzioni di sovrano politico neppure nei territori più vicini in cui aveva dominato l’imperatore. Non bisogna lasciarsi trarre in abbaglio dalle numerose contingenze in cui il papa può apparire come il re dei re, il domatore dei potenti, la fonte di ogni diritto e di ogni potere.

Come abbiamo già visto sopra, tutti questi successi del papato furono dovuti alle condizioni interne in cui versavano altri Stati, e non ad una superiorità politica e militare che potesse vantare il papa. Si potranno moltiplicare quanto si vuole gli esempi di questi splendidi successi, ma si avrà sempre lo stesso risultato, ed inoltre si dovrà arrivare all’altra conclusione che il papa in queste lotte politiche fece eccessivo abuso delle armi spirituali, in cui stava la sua forza, e con l’abusarne le spuntò.

Col terrore dell’anatema Gregorio VII disperse i partigiani di Enrico IV, Alessandro lii mise in pericolo Federico Barbarossa, Innocenzo III costrinse re Giovanni d’Inghilterra a piegare il ginocchio dinanzi al suo legato e così pure atterri e domò i re di Francia, del Portogallo e della Svezia. Ma questi Principi ed i loro consiglieri nel loro intimo finirono per perdere ogni reverenza verso una autorità spirituale cui erano costretti a cedere solo perchè i loro nemici politici prendevano a pretesto i fulmini ecclesiastici per aizzare contro di loro le masse; ignoranti che seguono irrazionalmente il primo che grida forte, e subito dopo quello che grida ancora più forte.

La noncuranza dell’anatema si diffuse sempre più largamente. Chi aveva visto come i papi avessero scatenato delle rivoluzioni per abolire il diritto di investitura esercitato dagli imperatori con retta coscienza e per il meglio della Chiesa, come avessero precipitato l’Inghilterra in tutti gli orrori della guerra civile e mutato in deserti le fiorenti regioni del mezzogiorno della Francia, e come poi avessero fatto delle stesse grazie divine e delle indulgenze della chiesa un traffico che li aveva esposti allo scherno del mondo intero; chi aveva visto tutto ciò non rimase più sordo all’accusa che si levava da ogni paese che Roma abusava del suo potere spirituale solo per far denaro e solo per acquistarsi beni.

Sempre più risolutamente gli Stati si opposero alle pretese dei papi quanto ledevano i loro interessi, per quanto essi le velassero sotto pretesti spirituali e le appoggiassero con minacce di pene ecclesiastiche. Gli uomini si abituarono a vivere scomunicati e le città e campagne si assuefecero anche all’interdetto. Vi furono paesi che lo tollerarono per anni, persino per decenni, ed ai laici si associarono anche preti e monaci che ne alleviarono il peso continuando a celebrare le funzioni del culto. La continua coercizione delle coscienze se rese molti assai più liberi pensatori, trasformò però molti altri in indifferenti, in agnostici, o praticanti solo perchè non si poteva evitare la propria presenza nel tempio nella grande città o nella chiesetta del proprio paesello.

Un altro fatto importante da tener presente è poi che il papato, in seguito alla sparizione della sovranità dell’impero sullo Stato della Chiesa, ed in seguito all’acquisto da parte sua dell’alta sovranità feudale sul regno di Sicilia e di vasti possedimenti in Italia che erano appartenuti all’impero, aveva raggiunto fra gli Stati italiani una molta maggiore indipendenza ed era assurto ad una molto più notevole importanza politica.
Ma naturalmente con l’ingrandirsi dello Stato della Chiesa aumentò anche l’influenza che esso esercitò nella politica generale dei papi. Essi videro molto più spesso violato il proprio territorio da qualche lato e furono coinvolti nei conflitti fra altri Stati. Così avvenne che nel corso del XV e XVI secolo i papi finirono per diventare una delle numerose signorie territoriali italiane, la cui potenza, in sè scarsa come forze, era particolarmente accresciuta dalla loro forza e autorità spirituale. Nel XVI e XVII secolo vi sono stati dei papi, come Clemente VII ed Urbano VIII, che per gli interessi del loro dominio temporale e della loro famiglia (per non perdessero proprietà e privilegi) hanno persino appoggiato i protestanti contro gli imperatori cattolici.

Se pertanto noi paragoniamo i fatti all’ideale del dominio universale che la curia aveva perseguito, dobbiamo concludere che tale fine non venne da essa raggiunto nè teoricamente nè praticamente.

Se invece mettiamo a confronto l’influenza politica esercitata dai papi nel XIII secolo con l’influenza che riuscirono ad esercitare gli imperatori anche nei periodi della loro massima potenza, la prima si manifesta incomparabilmente superiore. I papi nominarono e deposero vescovi, in tutti gli Stati, dal Portogallo alla Norvegia, umiliarono re e li costrinsero a piegarsi ad atti e dichiarazioni contro le quali si erano per lungo tempo ribellati, deposero re e ne fecero eleggere altri, modificarono leggi, confermarono o annullarono trattati.

Essi inoltre conferirono privilegi a città, fondarono università o ne impedirono la fondazione, legittimarono bastardi, e misero imposte ed altre ne vietarono; in breve non vi è campo della vita sociale di qualsiasi paese, che non abbia risentito profondamente l’influenza della volontà di Roma così nelle grandi come nelle piccole cose.
Il rapporto tra l’autorità spirituale ed il potere civile rimase quindi notevolmente invertito. Carlo Magno era stato il sovrano del papa che gli aveva tributato adorazione, l’omaggio bizantino cioè che si avvicinava alla venerazione della divinità. Inoltre nell’età carolingia, sino alla metà del IX secolo, aveva dominato il concetto che l’imperatore non aveva bisogno dell’incoronazione papale, che l’incoronazione non era un atto da cui prendeva origine l’autorità imperiale, ma un semplice riconoscimento ed una proclamazione solenne del diritto già acquistato dal titolare della corona.

Dalla metà del IX secolo poi prevale bensì l’idea che l’incoronazione da parte del papa fosse necessaria, ma i re esercitarono tuttavia i diritti politici inerenti alla dignità imperiale anche senza essere stati incoronati. La dottrina influenzata dal clero e rappresentata da esso medesimo raffigurava da principio le due autorità come pari, ma poi prevalse l’uso di paragonare l’autorità spirituale al sole e l’autorità imperiale alla luna, perchè, si diceva, la seconda derivava la sua forza dalla prima, od anche di servirsi del simbolo delle due spade: la spada spirituale era brandita dal papa manu sua, la spada temporale era invece brandita ai suoi cenni (nutu suo).

Ma queste teorie nè corrisposero alla realtà delle cose, nè furono accettate dagli Stati; anzi gli imperatori ed i re che al pari di loro ne rimasero colpiti, contrapposero ad esse lo spirito ed i concetti del diritto romano. E neppure mancavano passi della bibbia da contrapporre alle argomentazioni della Chiesa.
Per un certo tempo gli imperatori nominarono i papi ovvero esercitarono sulla loro elezione una influenza così profonda da equivalere ad una nomina. I papi non pretesero invece mai di nominare gli imperatori, ma transitoriamente accamparono il diritto di confermarne l’elezione.

Quando morì Riccardo di Cornovaglia (1273) ed Alfonso di Castiglia chiese al papa di riconoscerlo imperatore, benchè avesse scarso seguito in Germania, il re di Francia tentò di arrivare alla corona imperiale con l’aiuto del papa. Ma papa Gregorio IX non si ritenne in diritto di nominare l’imperatore, ed invece ammonì i principi elettori di eleggere entro breve termine un re, perchè altrimenti egli si sarebbe trovato costretto a pensare insieme con i cardinali alla designazione di un capo dell’impero. Per conseguenza egli accampò soltanto una specie di diritto di devoluzione fondato, sulla cura della giustizia e della morale che indubbiamente era inerente alla missione della Chiesa.

Caratteristico è il rapporto fra le due autorità nei riguardi della fondazione di università. Ambedue erano considerate le vere e proprie fonti legittime da cui potevano emanare i grandi privilegi delle università e specialmente quello del ius dottorandi. Tuttavia i re dei maggiori Stati si ritennero assai precocemente in diritto anch’essi di concedere analoghi privilegi. Nella Spagna, in Inghilterra ed in Francia i sovrani, quando non procedettero essi medesimi a fondare università, si rivolsero al papa e mai all’imperatore per l’emanazione dei relativi privilegi; e lo fecero anche perchè occorreva impiegare benefici ecclesiastici per dotare le università.

In Italia ed in Germania si fece appello talora al papa, talora all’imperatore, talvolta anche ad entrambi. Chi aveva un privilegio imperiale cercava volentieri di ottenerne uno anche dal papa e viceversa. Nè si faceva ciò perchè si dubitasse minimamente della facoltà dell’una o dell’altra autorità, ma perchè si sperava di acquistare maggiore autorità coll’accumulare privilegi. Così pure alcuni dottori ritenevano che il solo imperatore avesse il diritto di fondare o legittimare facoltà di diritto romano ovvero università munite del ius dottorandi in diritto romano, altri attribuivano un analogo diritto esclusivo al papa per la teologia, altri infine opinavano che ambedue avessero diritti pari per tutte le facoltà; nel fatto poi li esercitavano entrambi.

Queste questioni tuttavia sono argomento di dispute principalmente nel XIV e XV secolo, ma hanno la loro radice già nel XIII secolo, e dimostrano inoltre come il papato e l’impero avessero conservato integra la loro autorità dopo che la grande lotta era finita.

"da http://cronologia.leonardo.it/umanita/papato/cap073.htm"
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I Papi E LA CITTÀ DI ROMA

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La città di Roma ha esercitato una influenza considerevolissima sulle sorti del papato e dell’impero, così presi isolatamente, come considerati nei loro rapporti, e quindi la storia di Roma dal IX al XIII secolo merita una particolare attenzione. Il suo nome associato ad una millenaria tradizione storica e la sua fama furono forse la fonte principale delle tendenze alla organizzazione universale, delle chiese e degli Stati.
Nel tempo stesso però anche in Roma come nelle altre città italiane si produssero quelle cause che fecero sorgere e caratterizzarono il ceto cittadino medioevale, benchè a differenziare la storia di Roma da quella delle altre città abbia influito notevolmente l’orgoglio di dare il pontefice al mondo e di conferire la dignità imperiale. Certo questo orgoglio degenerò spesso in commedia, ma in circostanze favorevoli esercitò profonda influenza. Alla fama della città eterna, alla sua autorità di capitale dell’impero il vescovo e patriarca di Roma andò debitore della sua graduale elevazione al disopra degli altri vescovi e patriarchi.

Vi fu un momento in cui il patriarca di Costantinopoli, della Nuova Roma, minacciò di oscurare l’autorità del vescovo di Roma in grazia dell’ascendente acquistato dalla chiesa della nuova capitale dell’impero. Roma ebbe allora la fortuna di possedere in Gregorio Magno un vescovo dotato di qualità superiori il quale combatté con grande abilità ed energia la pretesa del vescovo di Costantinopoli di essere venerato quale papa universalis.

Ma la vittoria rimase a lui soltanto perchè la città di Roma, anche umiliata come si trovava nel VI secolo al grado di città provinciale, non dimenticò nè la sua antica gloria nè la supremazia sulle altre sedi vescovili acquistata dalla sua chiesa ai giorni dell’impero romano. Roma e l’Italia considerarono non solo allora, ma sempre anche in seguito, il papato come una prerogativa nazionale, come un privilegio degli italiani e specialmente dei romani. Ciò non impedì peraltro che dei 24 papi succedutisi nei cento anni che corrono tra la morte di Gregorio Magno (604) e papa Costantino (708-15), dodici siano stati o Greci o Siriaci o nativi dei paesi dell’Italia meridionale e della Sicilia strettamente dipendenti da Bisanzio.

Solo con l’aiuto prima dei Longobardi e poi dei Franchi i vescovi di Roma poterono rendersi più indipendenti di fatto da Bisanzio, sinchè poi con l’incoronazione di Carlo Magno ad imperatore la città di Roma ed il suo vescovo si emancipò anche legalmente dall’impero greco. Il vescovo di Roma era in realtà anche il capo politico della città; ciò trovava riscontro in quanto era avvenuto nella maggior parte delle città dell’impero romano sedi di vescovadi; anche qui infatti con la caduta del governo laico buona parte dei poteri pubblici si era concentrata nelle mani dei vescovi.

Data questa situazione politica del papato, le fazioni in cui si divideva la nobiltà romana, se una influenza estranea non si imponeva, erano di solito a lottare per elevare uno dei loro all’alta carica. I re tedeschi misero un pò più d’ordine nelle elezioni dei papi e nel governo di Roma, ma all’inizio del X secolo il seggio vescovile romano, che durante l’Vlll ed il IX secolo era salito ad un grado d’autorità sino allora sconosciuto, divenne nuovamente preda delle lotte di parte e finalmente rimase infeudato ad una famiglia strapotente.

Gli Ottoni liberarono il papato da questo servaggio, ma non per molto tempo, ed Enrico lii nell’XI secolo fu costretto a rinnovare l’opera iniziata da Ottone I. Verso quest’epoca la borghesia cittadina incominciò a Roma ad acquistare per la sua ricchezza e per la sua organizzazione la stessa preponderanza che aveva raggiunta negli altri comuni italiani ed a scalzare l’influenza sino allora prevalente della nobiltà.
Coscienti della loro forza i popolani giustificarono le loro pretese richiamandosi alla potenza dell’antica Roma di cui si considerarono eredi. Le pretese dei papi alla supremazia universale apparvero ad essi una semplice emanazione secondaria del diritto della città di Roma, ed in ispecie anche il diritto di incoronare l’imperatore fu dalla città concepito come un diritto di eleggere l’imperatore.

In Arnaldo da Brescia queste idee trovarono un rappresentante, il quale nel tempo stesso era convinto che la chiesa ed il clero dovevano essere liberati dagli oneri e dalle tentazioni inseparabili dalle ricchezze mondane e dal potere temporale. Arnaldo da Brescia era uno scolaro di Abelardo, dell’acuto dialettico, che fu uno dei principi e fondatori della teologia scolastica, ma che era dotato di uno spirito scientifico ben più vasto. Nello stigmatizzare la corruzione della chiesa e nello zelo di riformarla, Arnaldo da Brescia si assomigliava a Bernardo di Chiaravalle, ma era di idee più spinte; in lui vi era già qualche cosa che preludia l’azione degli ordini dei mendicanti.

Bernardo era un sant’uomo dello stampo medioevale, ma non tollerava volentieri di essere contraddetto, e ben presto egli non vide nello splendido talento di Arnaldo se non la parte che non gli garbava. Arnaldo era invece uno spirito troppo indipendente per adattarsi alla parte di semplice ausiliario e di strumento docile degli altrui voleri, e quindi si tirò addosso l’odio del monaco intransigente che gli aizzò alle calcagna uno dopo l’altro i grandi della terra.

Con la esuberante retorica tutta propria di questi servi di Dio che predicavano l’umiltà ma non sapevano sottrarsi alla vanità, egli chiamò il suo avversario “un nemico della croce di Cristo che nella vita è temperante e digiuna ma cena col demonio ed è assetato del sangue delle anime”.
Arnaldo non era sicuramente meno sincero di Bernardo nel suo zelo e fors’anche non era meno di lui schiavo di preconcetti ed unilaterale di vedute, ma lo era in altra modo. Egli trovò molto seguito, anche fra i potenti. Un cardinale gli offrì protezione allorchè il suo nemico lo fece scacciare dalla Francia e poi dalla Svizzera dove aveva trovato asilo presso il vescovo di Costanza. I suoi scritti erano stati messi all’indice e bruciati pubblicamente a Parigi, ma lo stesso era avvenuto a quell’epoca a molti dotti che nondimeno avevano trovato facilmente il modo di riconciliarsi con la chiesa, e lo trovò anche Arnaldo.
Ma quando credette di aver trovato nelle aspirazioni del popolo romano alla guida comunale il mezzo di realizzare il suo ideale della santa chiesa, libera da ogni catena mondana, allora egli ebbe giorni di trionfo che ricordano i trionfi futuri di Cola di Rienzi e più tardi sotto un altro aspetto richiamano la figura del Savonarola.

Egli si pose alla testa del popolo e lo esortò a riprendere in sua mano quel potere che Dio aveva dato alla eterna città e che le era stato sottratto dai preti. La sua ardente eloquenza trascinò all’entusiasmo il popolo, dinanzi al quale il papa fu costretto a fuggire da Roma. Egli fece lega con le grandi casate nobili che il sorgere del comune aveva fatto decadere dall’antica potenza; ma la città gli rispose prendendo una attitudine più risoluta di sfida. Essa invitò re Corrado lii a venire in Italia, ed unirsi con essa per restaurare quella signoria del mondo che avevano esercitato Costantino e Giustiniano.
Lo spirito del diritto romano rievocato a nuova vita nelle già sorgenti scuole di diritto, la baldanza di un comune ambizioso che, si credeva chiamato ad alti destini, l’irritazione contro il despotismo e la cupidigia dei preti e dei monaci e contro la loro corruzione di costumi: tutto ciò concorse a produrre una enorme tensione che si risolse in potenti esplosioni. Il papa ed i suoi alleati non riuscirono a sottomettere Roma.
Eugenio lii errò per molti anni (1145-53) in terra straniera. Ma gli imperatori della casa di Hohenstaufen, così Corrado lii come Barbarossa, non seppero decidersi ad abbandonare le vecchie forme del governo imperiale, a gettar da una parte l’antica autorità dei papi, ed a far lega col turbolento quanto pretenzioso comune di Roma. Corrado lasciò che le cose andassero per la loro china, promise bensì di venire in aiuto del papa, ma ne fu impedito dalla crociata e dalle condizioni interne della Germania.

Quando poi Barbarossa nel 1155 venne per la prima volta a Roma consegnò al papa Adriano IV Arnaldo da Brescia che da una controrivoluzione popolare era stato costretto a fuggire da Roma ed era caduto nelle mani dell’imperatore. Il papa lo fece impiccare, fece ardere sul rogo il suo cadavere e disperderne le ceneri nel Tevere.
Mentre Federico Iera in marcia verso Roma si erano recati ad incontrarlo ambasciatori del Senato romano che gli avevano con gran pompa di eloquenza parlato dei titoli di Roma al dominio universale, dei diritti della città e del dovere del re di preservarla dalla furia dei barbari, vale a dire dell’esercito tedesco. Federico li trattò alteramente e li rimandò indietro, occupò la chiesa di S. Pietro e le sue adiacenze, vi si fece incoronare e domò con mano ferrea una insurrezione dei Romani.

In grazia delle rigide misure adottate da Federico e dopo la consegna di Arnaldo da Brescia la posizione di papa Adriano in Roma si venne a trovare notevolmente rafforzata. Adriano ricompensò l’imperatore concludendo un trattato con il regno normanno ma poi gli inviò ai vescovi e ai principi riuniti alla dieta di Besancon la nota lettera in cui lo trattava come un suo servitore e la corona imperiale come un feudo della Chiesa.
Questa lettera e le audaci parole del cardinale che la consegnò (“da chi dunque, egli disse, l’imperatore aveva ricevuto l’impero se non dal papa?") rivelarono senza alcun dubbio con quale spirito i papi intendevano ora condurre la lotta contro l’imperatore, dopo aver per opera sua rimesso piede a Roma.

Ma sicura del tutto la signoria dei papi sulla città di Roma non poteva dirsi affatto. Se non che nei più importanti periodi della lunga lotta contro gli Hohenstaufen i papi si atteggiarono ad alleati dei comuni italiani, e Roma seppe apprezzare la gloria che le procurava il dominio universale dei papi e le grandi ricchezze che esso faceva affluire da ogni parte in città. La guida del comune era sorto in opposizione ai papi, ma sotto Innocenzo lii il governo cittadino si innestò e si subordinò al governo papale. L’autorità imperiale su Roma, che ancora sotto Enrico VI aveva manifestato una certa energia, scomparve completamente dopo la sua morte.
Il prefetto imperiale divenne un vassallo del papa, e ovviamente Innocenzo III riuscì a ridurre alla condizione di suo vassallo il senatore, il rappresentante e il capo del comune. Anche lo Stato della Chiesa si sottomise ad Innocenzo III; uno dopo l’altro i dinasti fecero atto di omaggio al papa. Persino città come Perugia gli si sottomisero e Viterbo fu vinta e soggiogata da Roma. Tra questi comuni dello Stato della Chiesa regnarono rivalità analoghe a quelle delle città lombarde e le lotte fra di loro si svolsero con la stessa furia spietata.

Neppure la dominazione organizzata da Innocenzo lii su Roma durò a lungo, e nel 1203 egli stesso dovette cercare rifugio fuori città. Solo dopo un anno circa, nel marzo 1204, osò ritornarvi e soltanto dopo nuove lotte, riuscì nel 1205 a riportare una certa pace ma anche ad assumere su di sé la nomina del capo del comune, che portava il titolo di senatore o di podestà.
Tuttavia la tranquillità non durò molto. Anche papa Gregorio IX (1227-41), così altezzoso verso l’imperatore, dovette fuggire da Roma; ma Federico Il sconfisse poi i Romani e restituì il papa nel suo seggio (1234).
Immediatamente Gregorio IX lo ricompensò di averlo salvato, assumendo un atteggiamento colmo di tutta la superbia sacerdotale e dichiarandogli che l’imperatore Costantino, con l’assenso del Senato e del popolo della città di Roma e di tutto l’impero romano aveva decretato che al rappresentante dei principe degli apostoli, cui spettava nell’impero la supremazia sul sacerdozio e su tutte le anime, dovesse avere anche la signoria su tutte le cose terrene e sui corpi.
«Il capo dei re e dei principi si piega fino ai piedi dei sacerdoti, e gli imperatori cristiani debbono sottoporre le loro azioni al controllo non solo del papa romano, ma anche di altri ecclesiastici».

È notevole qui non soltanto la forma brutale con cui l’uomo poco prima salvato metteva il piede sul collo al suo salvatore, ma anche il richiamo in appoggio delle pretese ch’egli elevava a quella falsificazione che va sotto il nome di Constitutum Constantini, e l’affermazione che Costantino avesse emanato questa costituzione "col consenso del senato e del popolo della città di Roma e di tutto l’impero romano".
La pretesa costituzione di Costantino reca realmente quest’ultime parole, ma si tratta di una formula vuota d’ogni serio valore. Insistendo su tale circostanza il papa faceva una concessione allo spirito dei tempi, al sentimento o piuttosto alla convinzione dominante nei Romani che la loro città fosse la originaria titolare della supremazia universale reclamata dai papi.

Anche Federico Il riconobbe talora formalmente siffatta pretesa della città di Roma, né in ciò si deve vedere una semplice adulazione intesa ad accattivarsi l’animo dei Romani, ma l’espressione di un concetto di diritto pubblico che allora era generalmente accettato. Persino in una lettera diretta al papa Federico Il nel 1236 si valse dell’argomento che l’imperatore derivava la sua potestà dal popolo romano che gliela aveva trasferita con la lex regia. Ed ancora in altre circostanze di rilievo Federico Il trattò la cittadinanza romana come la fonte di quella sovranità che era stata creata dal popolo di Romolo.

Innocenzo IV rimase per molti anni lontano da Roma sordo agli inviti della città. La costituzione autonoma del comune di Roma subì allora una trasformazione pari a quella che si era già da un pezzo verificata in molti comuni italiani; essa nel 1252 chiamò a reggerla in qualità di podestà un cittadino di un’altra città, con poteri ampi ma limitati nel tempo.
Il nuovo capo del comune ebbe il titolo di senatore e l’istituzione funzionò dal 1252 al 1255.In questo tempo la città visse di fatto indipendente così dall’imperatore come dal papa; ma seguì presto un periodo di discordie partigiane interne. Una fazione elesse nel 1261 a senatore il re Riccardo di Cornovaglia, la fazione avversaria il re Manfredi. Terzo tra i due contendenti si intromise come aspirante alla stessa carica Carlo d’Angiò e nel 1163 ottenne di esservi nominato a vita. Questa nomina mise papa Urbano IV in estrema inquietudine, ma egli non osò ostacolarla apertamente.

Le accennate scissioni interne riuscirono dannose alla città, ma la sua indipendenza dal papa divenne tuttavia sempre maggiore di fatto e di diritto. Durante tutto il suo pontificato (1261-64) papa Urbano IV non pose mai piede in Roma, ed il suo successore Clemente IV (1265-68) francese come il predecessore, non fu eletto a Roma ma a Perugia.
Carlo d’Angiò depose la carica di senatore per tranquillizzare il papa, ma non per questo Clemente rientrò in possesso di Roma.
Nel 1267 venne eletto senatore il principe spagnolo don Arrigo, figlio del re di Castiglia, il quale fece di Roma una alleata di Corradino. Papa Clemente scomunicò il senatore di Roma e minacciò di fulminare l’interdetto sulla città.
Invano; Corradino ebbe splendida accoglienza in Roma, ma purtroppo dopo la disfatta di Tagliacozzo vi ritornò, senza potervisi sostenere. Anzi fu anche tradito e finì decapitato a Napoli.

I Romani a questo punto, sempre pronti a cambiare il cavallo vincitore, rielessero senatore cario d’Angiò che governò poi Roma per 10 anni (1268-78) per mezzo di propri vicari, funzionari che egli vi mandava nominandoli a tempo indeterminato. Si potrebbe paragonarti ai missi dominici del vecchio ordinamento franco, ma meglio ascoltare coloro che in questo vicariato riconoscono una delle forme dalle quali si è svolta la burocrazia moderna.
Nel frattempo il potere del papi su Roma potè dirsi quasi sparito e Viterbo fu la sede normale della Curia. Qui morì papa Clemente IV, qui i cardinali dopo la sua morie rimasero adunati per tre anni senza riuscire ad accordarsi se eleggere un italiano ovvero, come reclamava Carlo d’Angiò, un francese.

A Viterbo si recò all’inizio nel 1272 anche il nuovo futuro papa Gregorio X e di là poi si mosse per fare insieme con i cardinali e con tutto l’apparato della sua corte il suo ingresso in Roma. Dopo esservi rimasto un anno, si recò passando per Firenze e Milano a Lione, facendo un lento viaggio, durante il quale ebbe parecchie occasioni di sperimentare assai sensibilmente quanto fosse povera di contenuto la sua autorità universale apparentemente così grande.

A Lione tenne dal 7 maggio al 17 luglio 1274 il famoso concilio, nel quale insieme ad altre importanti questioni venne anche regolata meglio l’elezione dei papi, emanando nonne dirette specialmente ad impedire che si ripetessero le lentezze ed i ritardi verificatisi nell’ultima elezione. In virtù di esse i cardinali si dovevano d’ora in poi adunare nel palazzo del papa defunto, abitare tutti insieme in una camera, le cui uscite avrebbero dovuto essere murate, salvo una finestra dalla quale si sarebbe portato loro il cibo. L’elezione doveva compiersi entro tre giorni. In caso contrarlo nei cinque giorni successivi i cardinali non avrebbero avuto che un solo piatto così a desinare come a cena. Se anche durante questi cinque giorni essi non riuscivano a mettersi d1accordo, non si doveva in seguito dar loro che pane, acqua e vino. La scomunica era minacciata contro i cardinali che cercassero di mettersi in corrispondenza con l’esterno e contro gli intermediari di queste relazioni.

Queste norme sono rimaste in vigore con poche modifiche fino ai tempi nostri; ma quante elezioni, ad onta di esse, sono state il risultato di corruzioni, dell’inganno e della violenza; quanto amara è l’ironia che spira da tali disposizioni meschine, dettate dalla preoccupazione e dal timore, se si pensa che la chiesa aveva sempre energicamente proclamato che l’elezione dei papi avveniva per ispirazione dello Spirito Santo!
Ma dunque lo Spirito Santo è corruttibile? Lo si può costringere a decidersi con la fame e con la noia di rimanere a lungo rinchiuso nell’oscurità d1una carnera? Queste sono le domande che si sono rivolti parecchi che si sono occupati di queste cose. Il riso di fronte ad esse sale alle labbra, anche le più riservate. La clausura murata dei cardinali fu la confessione ufficialmente fatta dalla Chiesa che l’elezione dei papi era una lotta di partiti ed un tessuto di intrighi; del resto la clausura l’ha ben poco guarita da questo male.

Riguardo a molte elezioni posteriori sono giunte sino a noi notizie di traffici, pressioni ed intrighi di vario genere. In occasione della stessa elezione di Adriano V, avvenuta sei mesi dopo la morte di Gregorio (nel luglio del 1276) sorsero proteste perchè Carlo d1Angiò ai cardinali indipendenti che ricalcitravano ai suoi voleri aveva fatto somministrare dopo otto giorni pane e vino soltanto, mentre aveva fornito segretamente un vitto migliore ai cardinali partigiani dell’elezione di un francese.

Nel tornare da Lione a Roma papa Gregorio X fu costretto dallo straripamento dell’Arno ad entrare in Firenze, ch’egli aveva colpito di interdetto e sul cui territorio quindi egli stesso non avrebbe dovuto metter piede. Ma non vi erano altri ponti ed altre vie libere se non quelle, colpite da interdetto, della città. Allora il papa tolse l’interdetto, passò benedicendo per la città, e poi la scomunicò nuovamente appena uscito dalle sue porte. Il vecchio dio del fiume aveva per un momento protetto la sua città contro le misure del sacerdote del nuovo Dio; ma questi con la stessa disinvoltura del vecchio paganesimo aveva scagliato su di essa nuovamente i suoi strali.

Questo avveniva il 18 dicembre 1275; poco dopo papa Gregorio X si ammalò ed il 10 gennaio 1276 morì, senza aver raggiunto Roma.
A Roma del resto Carlo d’Angiò spadroneggiava in modo assoluto e voleva fare del papato uno strumento della sua politica. Perciò papa Giovanni XXI, che fu eletto contro la sua volontà, prese nuovamente stanza a Viterbo. E la curia rimase a Viterbo anche durante la lunga sedis vacanza che segui alla morte di Giovanni. Il successore di quest1ultimo, Nicola III (dalla fine del 1277 al 1280), un romano appartenente alla famiglia degli Orsini, osò ritornare a Roma, e costrinse persino Carlo d’Angiò a rinunziare alla dignità di senatore.
I romani concessero al papa la facoltà di nominare un senatore, ed egli designò allora alla carica suo fratello. Se il papa riuscì a conseguire tali successi fu perchè trovò appoggio contro Carlo d’Angiò in Rodolfo d’Asburgo. E siccome Rodolfo aveva bisogno della corona imperiale per portare a compimento quel piano in virtù del quale aveva consolidato la posizione sua e quella della sua casa, procacciando contemporaneamente all’impero che minacciava sfasciarsi un nuovo centro di collegamento, così egli rinunziò pure in forma solenne a favore di Roma, ai diritti dell’impero sulla Romagna, col consenso espresso, consacrato in appositi atti scritti, dei principi elettori e di molti altri principi.

In tal modo il papa ampliò gli Stati della chiesa con l’acquisto della Romagna; egli dominava poi, per lo meno indirettamente, in Toscana, e seppe obbligarsi Milano, Verona ed altre città, nonché dinasti, dell’alta Italia prosciogliendoli dalla scomunica in cui erano incorsi per aver preso le parti di Corradino e che avevano sopportata per 10 anni.
In seguito il papa riuscì ancora ad indurre ad un accomodamento Rodolfo d’Asburgo e Carlo d’Angiò, anzi si dice che egli abbia progettato d’accordo con Rodolfo una divisione dell’impero. La Germania avrebbe dovuto divenire regno ereditario nella casa d’Asburgo. Il regno Arelatense insieme con la mano di una figlia di Rodolfo sarebbe andato a Carlo Martello, un nipote di Carlo d’Angiò; della Lombardia e della Toscana si sarebbero formati due regni.

Probabilmente con quest’ultimo patto papa Nicola andava a caccia di corone da distribuire a membri della propria famiglia, tanto più che egli aveva già dato prove di saper sfruttare il pontificato per arricchire ed elevare di grado la sua famiglia. Ma mentre ancora duravano le trattative egli morì nel 1280. Il suo successore Martino IV (1281-85) era un francese. Egli non potè sostenersi in Roma. Pur essendo riuscito da principio ad ottenere la dignità ed i poteri di senatore, che anche Nicola lii aveva esercitati, si trovò presto costretto a rimetterli nelle mani di re Carlo, che dopo ciò governò da padrone nello Stato della Chiesa allo stesso modo che a Napoli.

Ma quando i Siciliani il 30 marzo 1282 a Palermo e poi in tutta l’isola fecero strage dei francesi e non si lasciarono atterrire nè dalle truppe del re nè dall’anatema del papa, gli antichi partigiani dell’impero si levarono anche nello Stato della Chiesa e nella stessa Roma e scossero il giogo francese con l’aiuto di tutti gli altri elementi cui tornava a vantaggio la sua caduta.

Martino IV dovette piegarsi alla volontà dei Romani, che deposero Carlo d’Angiò, si nominarono altri magistrati supremi e riformarono la costituzione cittadina.
Non erano ancor trascorsi vent’anni da che Corradino era stato decapitato a Napoli, e Carlo d’Angiò moriva il 7 gennaio 1285 lasciando il suo regno, edificato con tanto sangue ed accompagnato da tante benedizioni della Chiesa in parte già distrutto, in parte scosso dalle fondamenta.
Alla fine di marzo dello stesso anno morì anche papa Martino IV. Il dominio dei papi su Roma, sullo Stato della Chiesa, sulla Romagna ed indirettamente su Napoli e Sicilia e sulla Toscana, che sotto Nicola lii aveva acquistato apparentemente una sicura e solida base, era anch’esso andato in frantumi. Si era rivelato ancora una volta che questo dominio non poteva reggersi se non quando i papi riuscivano a trovare appoggio in un’altra autorità estranea.
Furono questi tempi ed i decenni seguenti quelli nei quali il futuro papa Bonifacio VIII ebbe campo di convincersi per esperienza che il papa non poteva essere papa se non quando i principi erano in lotta fra di loro. Questo motto di Bonifacio VIII equivaleva a dire che l’ambita supremazia universale del papato era un assurdo, qualche cosa che non si poteva nè raggiungere nè mantenere nelle condizioni normali cui deve aspirare in prima linea ogni Stato, quella di vivere in pace con gli altri Stati.

E si badi che questi erano gli anni immediatamente successivi alla vittoria del papato sull’impero. Dato il punto divista di Bonifacio, la politica estera della Santa Sede doveva necessariamente mirare a metter gli uni contro gli altri.Se i papi hanno così vergognosamente fatto abuso dei diritti che il sentimento religioso dei popoli aveva loro riconosciuti, se hanno scandalosamente sfruttato le sacre istituzioni della Chiesa, come ad es. fecero Gregorio IX ed Innocenzo IV in odio all’imperatore Federico Il in occasione della crociata del 1228-29 ed al concilio di Lione del 1245, se i cristiani ebbero con tristezza a vedere che nel 1229 lo stesso papa tentò di colpire alle spalle il re crociato mentre era lontano e che 1O anni più tardi gli impedì di accorrere a salvare l’esercito pericolante di S. Luigi; in tutto ciò, ed in altro ancora non si deve vedere un effetto della malignità personale di questo o quel papa, ma una conseguenza imposta dalla forza stessa delle cose, dal momento che i papi volevano perseguire l’ambizioso sogno d’un dominio universale, volevano realizzare ad ogni costo quel sogno che aveva illuso tanti monaci nelle loro estasi e delle tempere di dominatori nati, come Gregorio VII, nell’ebbrezza dei loro trionfi.

E non meno illuso ne fu Bonifacio VIII, col cui papato soltanto (1294-1303) può dirsi chiuso questo periodo della storia dei papi. La sua bolla Unam sanctam ecclesiam e le altre di intonazione, analoga sono da molti considerate come prova della sconfinata potenza della curia in quei tempi; ma il corso ulteriore degli avvenimenti dimostra che Bonifacio VIII non possedeva realmente questo potere, era invece un semplice pretendente.

Bastò infatti un pugno di uomini risoluti ad abbatterlo completamente. E le conseguenze funeste del concetto che prima missione della chiesa di Cristo e quindi anche primo dovere dei fedeli fosse quello di governare le cose terrene con principii e dommi cristiani e perciò di subire che gli Stati si subordinassero all’alta sorveglianza ed al controllo del sommo sacerdote; queste funeste conseguenze non si manifestarono soltanto nella politica estera dei papi.

È questa infatti la fonte di quei continui abusi del potere ecclesiastico in materia di elezioni controverse, di giuramenti e nelle decisioni di tutte le mille altre liti portate da persone singole e da corporazioni dinanzi al tribunale di Roma. Del pari il proverbio che a Roma tutto si poteva comprare è piuttosto una prova dell’assurdità di un governo come quello esercitato dalla Chiesa che non della corruttibilità delle persone.

Certo la frode e la corruzione erano all’ordine del giorno ed i preti ed impiegati della curia che si lasciavano corrompere in tal modo, commettevano abusi delittuosi; ma anche i migliori alla lunga si sarebbero guastati, giacchè era affatto impossibile che a Roma si facessero un giudizio coscienzioso sia pure di una piccola parte di tutti gli interessi in contesa che vi si presentavano per essere giudicati, o che il papa potesse realmente essere responsabile di tutta la massa di decisioni che venivano emanate in suo nome per lo più da organi inferiori ovvero da questi venivano istruite e preparate.

Si sapeva bene che a Roma era necessario distribuire denaro non in un luogo soltanto.

"da http://cronologia.leonardo.it/umanita/papato/cap073.htm"
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POTENZA DELLA CHIESA – LE CHIESE - I MONACI - LE ERESIE

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75. POTENZA DELLA CHIESA – LE CHIESE - I MONACI - LE ERESIE

Abbiamo visto in continuo aumento l'autorità della Chiesa. Ma quali appoggi ebbe, e come giunse a queste autorità, che non era solo spirituale ma anche temporale, e che in sostanza voleva dire anche potenza. Ma con quali uomini e con quali mezzi ottenne questo risultato? La risposta anche se breve e non esauriente è il contenuto di questo capitolo. Dove non si fa alcun commento sui fatti teologici e quindi lasciamo da parte la potenza della Fede e dei principi religiosi, ma ci soffermiamo invece sulla potenza politica esercitata, e che in ultima analisi la si esercita quando essa dispone di patrimoni e di denaro, oppure con l'anatema li si toglie agli altri.
Nel coreo dell'epoca carolingia nei paesi già da un pezzo cristianizzati posti ad occidente dell'Elba fu completata l'organizzazione del culto e la suddivisione del vescovadi in parrocchie, e queste organizzazione più perfetta venne poi nel periodo dal X al XIII secolo trasportata ed applicata man mano nel territori conquistati al cristianesimo dalle colonizzazioni e dalle missioni.
Di tale organizzazione può servire come esempio la diocesi di Costanza, del cui sviluppo storico, in base ai ricchi dati statistici offerti dal vescovado, è stata pubblicata di recente una esposizione che risale fino al XIII secolo, e che permette anche di capire, almeno nel tratti più salienti, lo svolgimento della diocesi medesima nei secoli antecedenti sino al X. Per Integrare il quadro, ove occorra, e come termine di controllo, è utile e giova per le stesse ragioni la storia della diocesi di Brandenburg.

Il vescovado di Costanza era il più vasto tra i vescovadi tedeschi. Esso abbracciava un territorio di 800 miglia quadrate ed arrivava a mezzogiorno fino al Gottardo, a nord sino a Ludwigsburg. Un registro delle decime dell'anno 1275 ci presenta il vescovado suddiviso in arcidiaconati, e questi in diaconati affidati ai singoli parroci. Le chiese parrocchiali erano state organizzate dai vescovi, ma nei paesi germanici erano sorte in origine come chiese private dei signori territoriali, erano state erette da loro su terreno proprio.
Secondo la tradizione, che aveva le sue radici nell'antichità pagana germanica, il signore che aveva provveduto alla costruzione e dotazione della chiesa, nominava anche il parroco. Normalmente a costui era data anche una casa parrocchiale con giardino ed orto.

Sotto l'influenza dell'indirizzo cluniacense affermatosi nell'XI secolo e delle ulteriori riforme del XII e XIII secolo i diritti del signore feudale vennero più o meno a ridursi ai diritti di patronato, i quali anzi non potevano essere esercitati se non con il controllo e la cooperazione del vescovo. Nel tempo stesso aumentò l'autorità e l'ingerenza del vescovo anche sulle originarie chiese private e l'amministrazione parrocchiale resa più uniforme. Questo processo di subordinazione del basso clero al vescovo costituisce il pendant dell'esaltazione dell'autorità pontificia al di sopra dei vescovi e del raggruppamento dei monasteri in congregazioni ed ordini.

Il parroco riscuoteva le decime dal distretto sottoposto alla sua giurisdizione, ed accanto alla cura delle anime, aveva l’amministrazione dei beni e dei diritti spettanti alla parrocchia e la rappresentava. Per questa ragione il parroco venne chiamato rector ecclesiae, od anche, perché investito di cura d'anime, plebanus.
In non pochi casi, che si moltiplicarono anzi col tempo, il rector ecclesiae affidava la cura d'anime ad un vicario che percepiva una parte dei redditi della parrocchia e che per il suo ufficio talvolta é designato anch'egli col nome di plebanus. La parrocchia fu considerata come un feudo, allo stesso modo che già nell'VIII secolo molti beni di monasteri.
L'ufficio passava in seconda linea di fronte ai beni destinati alla sua dotazione. Ma nell' VIII secolo nell'impero carolingio l'impiego dei beni dei monasteri così infeudati venne regolato da una deliberazione della dieta dell'impero nel senso che una parte dei medesimi dovesse servire ad armare dei vassalli tenuti a prestare il loro braccio al re nella lotta contro la pericolosa invasione dei saraceni dalla Spagna.
Invece il conferimento delle parrocchie medioevali non venne fatto dal re ed in servizio dello Stato, ma dipese dalla protezione del patrono o di potenti personaggi ecclesiastici e laici. Questi infeudamenti di parrocchie furono fatti in tutti i paesi in parte a persone, in parte a monasteri e ad altre chiese privilegiate.

All'atto dell'organizzazione della amministrazione ecclesiastica nel territorio slavo Ottone I attribuì le decime ai vescovi e ad alcuni monasteri, specialmente a quello di S. Maurizio a Magdeburgo; e costoro dovettero a loro volta pensare a dotaste i parroci dei singoli luoghi. Probabilmente questa aggregazione delle nuove parrocchie stabilite nel detto territorio a scopo di conversione della popolazione pagana a così ricchi istituti ecclesiastici come il monastero di S. Maurizio a Magdeburgo fu consigliata dal fatto che, data la poca sicurezza del paese conquistato e la non ancora avvenuta conversione o la conversione soltanto apparente della popolazione, non si poteva contare molto su un regolare e sufficiente gettito delle decime.

Lo stesso sistema deve essere stato adottato per altri territori dello stesso genere, e così sorsero delle parrocchie istituite ab initio come vicariati. Il loro numero fu aumentato dalle parrocchie incorporate a monasteri, capitoli di cattedrali e simili altri istituti, perché anche queste furono per principio e permanentemente coperte da vicari, che percepivano solo una parte delle rendite, mentre le parrocchie autonome potevano sempre ritornare sotto un parroco che esercitasse pure la cura d'anime e quindi percepisse pure l'intero reddito.

Lo sviluppo economico del XII e XIII secolo non poteva a meno di far si che in molti paesi le decime rendessero assai più di quanto occorreva ad un semplice ecclesiastico, tanto più che ai parroci affluivano anche altri redditi. La loro ricchezza consigliò di utilizzare questi benefici agli scopi sopra ricordati. Le prestazioni della chiesa ai più svariati fini di benessere e perfezionamento generale costituiscono la forma con cui le energie economiche nazionali furono chiamate a contribuire a tali fini. Dopo che una così vasta parte del patrimonio nazionale era stata messa nelle mani della chiesa, questa non poteva sottrarsi a tale compito.
Le dotazioni di ospedali ed università ne offrono degli esempi. Ma questa libera disposizione dei benefici ecclesiastici aprì l'ingresso a gravi abusi. I relativi beni non vennero destinati soltanto a scopi di interesse generale, ma già nell'VIII e IX secolo li vediamo convertiti arbitrariamente a vantaggio personale di favoriti o di potenti signori.

Nel XII e XIII secolo questo abuso dilagò ancora di più. Le ricchezze sempre più grandi che la chiesa aveva accumulate in grazia di donazioni, dispense, indulgenze e con l'estensione della giurisdizione ecclesiastica, stuzzicò la cupidigia dei grandi e dei loro dipendenti e favoriti. Non di rado più parrocchie vennero concesse ad una sola persona che le faceva poi amministrare da vicari; di modo che egli riscuoteva la massima parte delle rendite di più chiese, senza far altro in compenso che adempiere ad alcune formalità.

Frequentemente le parrocchie furono conferite a persone che erano ancora troppo giovani per ricevere gli ordini sacri, od anche che non avevano nessuna intenzione di abbandonare la vita laica. Delle parrocchie della diocesi di Costanza nel XIV secolo un conte Corrado di Friburgo ne aveva sei, un conte Goffredo sette, un signore di Tieringen cinque, un conte Rodolfo di Zimmern nove. In altre diocesi si ripeteva lo stesso fenomeno, e le autorità ecclesiastiche non fecero mai un serio tentativo di eliminare questo sconcio, per quanto i concili provinciali si fossero spesso sforzati di combattere molti di questi abusi così stridenti.

Nel procedere alla nomina del vicario il parroco badava di solito più alle sue comodità ed a cercare un uomo di poche pretese finanziarie che non a procurarsi una persona idonea all'ufficio di plebanus, ed amava tenerla soggetta a sua discrezione. Perciò i concili provinciali reclamarono ripetutamente che anzitutto i vicari fossero nominati stabilmente e non potessero come ora essere licenziati ad arbitrio del parroco, che in secondo luogo l'arcidiacono competente o il vescovo ne accertasse e dichiarasse prima la idoneità, e che infine fosse deputata al vicario una congrua portio dei redditi del beneficio, sufficiente ai suoi bisogni ed al pagamento delle prestazioni dovute all'arcidiacono ed al vescovo.

Le parrocchie, così in Germania, come in Francia, in Inghilterra ed altrove, erano pertanto solamente nella minoranza dei casi coperte da parroci che percepivano l'intero reddito del beneficio e gestivano personalmente l'ufficio. E queste erano di regola le parrocchie che avevano un buon reddito, talora anzi esagerato. La maggior parte invece delle parrocchie erano in mano di persone o istituti che percepivano il grosso delle rendite e facevano amministrare il culto da un vicario (plebanus) spesso pagato miseramente, poco istruito ed in posizione precaria e di soggezione, perché abbandonato all'arbitrio del titolare della chiesa.

Gli sforzi fatti dai concili per proteggere i vicari contro i parroci attestano quanto costoro avessero bisogno di tutela, ma non riuscirono a sradicare il male.
E questi inconvenienti non erano da lamentare nelle sole parrocchie di campagna; essi si ripetevano per gli istituti cittadini dotati di parecchie parrocchie. A Strasburgo ad esempio esistevano nel XIV secolo dieci parrocchie, ed in tutte queste chiese i parroci facevano amministrare il culto e la cura d'anime da «sostituti miseramente pagati». Per il popolo ignorante questo semplice plebanus, bastava e avanzava; non occorreva insomma un teologo per ripetere all'infinito pagine della Bibbia o la vita di qualche santo.
Per una sola parrocchia (S. Andrea) non siamo in grado di dire con certezza se avvenisse la stessa cosa. E nel XIII secolo le cose non devono essere andate diversamente. Sappiamo che già nel 1217 la parrocchia di Santa Aurelia fu aggregata «alla mensa del capitolo di S. Tommaso». Le sue rendite quindi servirono a dotar meglio la mensa di questi canonici, e la cura delle anime della parrocchia venne affidata ad un vicario. Tre parrocchie: il Duomo, S. Tommaso e S. Pietro, avevano dei capitoli di canonici laici, S. Stefano un capitolo di dame nobili, e le altre chiese, salvo forse quella di S. Andrea, vennero nel corso del XIV secolo aggregate a capitoli sull'esempio della chiesa di Santa Aurelia.

Non sappiamo poi se il parroco di S. Andrea amministrasse personalmente il culto ovvero percepisse solamente le rendite ed affidasse la cura d'anime a vicari temporanei o stabili.

Comunque sia, anche la chiesa di Strasburgo ci offre un quadro che somiglia più ad un mercato di benefici che non ad una istituzione per la cura delle anime. Questa cattiva impressione aumenta ancora se guardiamo alla maniera come erano conferiti i canonicati delle tre chiese del Duomo, di S. Tommaso, e di S. Pietro, e scrutiamo la vita che conducevano questi canonici.
Nel capitolo del Duomo nel XIII secolo (e probabilmente già prima) non vennero accolti se non conti e baroni e ne furono tenuti lontano persino i membri di famiglie della classe dei ministeriali, malgrado che questa sia stata spesso così potente.
Papa Gregorio IX nel 1231 impose coattivamente l'accettazione di un ecclesiastico di origine plebea, proclamando il giusto principio che nelle cariche ecclesiastiche ciò che importava non era la nobiltà dei natali, ma la nobiltà della vita incorrotta; ma non fece neppure il minimo tentativo per abolire radicalmente quel preteso diritto del capitolo del duomo.
I capitoli di S. Tommaso e di S. Pietro non ammettevano per lo più nel proprio seno che figli di patrizi di Strasburgo. Il conferimento dei posti vacanti era normalmente fatto con criteri nepotistici od analoghi. Una famiglia che era riuscita una volta ad installarsi nel capitolo di un duomo, poteva in circostanze normali considerarsi sicura di perpetuarvi la sua presenza per secoli; e infatti troviamo per parecchi secoli rappresentati nei capitoli dei duomi ad esempio i nomi dei Geroldseck, degli Ochsenstein, dei Lichtenberg, Kyburg, Rappoltstein, Tierstein.
I più fra i canonici del duomo «potevano chiamarsi fra loro cugini; molto spesso sedevano nello stesso capitolo due e non di rado tre fratelli». Per l'occupazione di molti posti vacanti, e specialmente delle cariche di decano e proposto del duomo, assai rimunerative, avvennero aspre contese tra le grandi famiglie nobili, e spesso aperte a selvagge guerre locali.
Così nell'anno 1338 e negli anni dal 1370 al 1372. Le famiglie più potenti dell'Alsazia e la città di Strasburgo presero le armi per la questione se doveva essere proposto del duomo un Ochsenstein ovvero un Kyburg.

Come nel XVI e XVII secolo la casa di Baviera ed altre case principesche pretesero che certi vescovadi fossero una specie di appannaggio della propria discendenza, allo stesso modo quei conti e baroni considerarono le grasse prebende del capitolo del duomo come una preda spettante alle proprie famiglie. Gli interessi spirituali in tali questioni passavano in ultima linea. Né le cose andavano diversamente per gli altri capitoli. E siccome ad essi erano state, salvo una, incorporate tutte le parrocchie di Strasburgo, queste servivano ad interessi familiari privati, erano in certo modo secolarizzate. I vicari delle chiese di Strasburgo, quelli cioè che veramente amministravano la cura d'anime, (i plebanus) venivano tolti dalla normale classe artigiana della città, di scarsa istruzione, ed anche alcuni stranieri ottennero talora queste funzioni. Costoro erano scarsamente retribuiti, almeno in proporzione alle grandi ricchezze delle chiese di Strasburgo.

Due considerazioni suscita il complesso dello svolgimento descritto. La prima é che i cluniacensi, Gregorio VII, ed i suoi successori e partigiani vollero giustificare le riforme tendenti a restringere l'ingerenza dei re nella nomina dei vescovi soprattutto con la ragione che tali ingerenze erano dannose alla chiesa, mentre l'abuso di accumulare cariche ecclesiastiche e benefici nelle mani di una sola persona e di conferirli per favoritismo o per denaro non solo non diminuì dopo la vittoria dei gregoriani, ma crebbe notevolmente, in particolar modo nel XIII secolo.

Sotto gli Ottoni ed i SaIII le nomine alle alte cariche ecclesiastiche furono sempre fatte con criteri più onesti ed obiettivi, che non dopo la lotta per le investiture e specialmente nel XIII e XIV secolo.
La seconda e capitale considerazione è che nel medioevo la massa dei preti, che amministravano normalmente il culto e nel tempo stesso rappresentavano la chiesa presso il popolo, a parte la scarsa istruzione, era priva di uno stipendio sufficiente a permetterle di acquistare una posizione autorevole ed influente nella società.


Le enormi ricchezze della chiesa vennero utilizzate e sperperate per dotare fino all'eccesso le alte cariche della gerarchia e per scopi diretti alla conquista del potere politico.

L'ordinamento della chiesa era una creazione dell'aristocrazia dell'impero romano o per lo meno acquistò la sua forma definitiva al momento in cui questa aristocrazia non trovò più collocamento soddisfacente nella carriera degli uffici dello Stato e lo cercò nella carriera ecclesiastica.
Negli Stati romano-germamci poi queste tendenze aristocratiche trovarono nuovo alimento nell'organizzazione aristocratica della società e nel feudalesimo. E le enormi ricchezze di cui già poteva disporre la chiesa nel VI e VII secolo favorirono questo processo che indubbiamente tornò gravemente a danno delle funzioni spirituali della chiesa.

Tutto ciò spiega come, ad onta della sua meravigliosa grandiosità, l'organizzazione della chiesa abbia finito per partorire gli stessi inconvenienti di cui fu causa l'organizzazione degli Stati di quel tempo, e come i papi, che pur seppero arrivare a tanta potenza nel campo della politica estera, godessero di così poca autorità effettiva in ciò che costituiva la missione vera e propria della chiesa.

Ed i papi si sono persino curati poco di perseguire quest'ultimo fine; e si capisce, perché erano essi stessi colpevoli in misura non lieve dell'abuso di distribuire i benefici ai loro favoriti ovvero di farli servire agli scopi della loro politica. Raggiunti questi primi obiettivi, i secondi erano quella della "potenza".

"da http://cronologia.leonardo.it/umanita/papato/cap075.htm"
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Prendendo partito da incidenti come il conflitto, sopra ricordato, accesosi verso il 1000 fra i vescovi di Magonza e di Hildesheim, il papato nel XII e XIII secolo, mediante le limitazioni arrecate al diritto dei capitoli di eleggere i titolari dei posti vacanti ed altre misure analoghe, mirò ad abbassare gli ecclesiastici di tutti i paesi al livello di meri agenti della volontà della Santa Sede, ma non riuscì completamente nell'intento se non qua e là.

In Francia ed in Inghilterra vi si oppose la corona, cresciuta in autorità e potenza; e dove, come nell'impero germanico l'insubordinazione dei grandi signori ecclesiastici e laici rese la corona troppo debole per potersi efficacemente opporre alle pretese di Roma, i grandi ebbero spesso forza sufficiente per opporsi essi stessi.
L'anatema e l'interdetto non atterrì i principi ecclesiastici non molto di più dei principi laici. Con queste armi i papi non riuscirono a spuntarla anche contro i vescovi se non quando trovarono aiuto in circostanze favorevoli. Innocenzo III, persino al tempo delle lotte per la successione al trono tra Filippo di Svevia ed Ottone IV, il quale aveva pur posto ai suoi piedi le sorti dell'impero, non poté imporre sempre la sua volontà nemmeno in questioni puramente ecclesiastiche.
Egli costrinse bensì i vescovi di Magonza, Colonia, Wurzburg, Besancon, Passau a giurargli obbedienza, li minacciò e castigò con sospensioni e scomuniche; ma questi fatti non stanno tanto a dimostrare l'autorità che effettivamente godeva il papa, quanto gli sforzi che egli faceva per conquistarla e le resistenze che incontrava.

Molti dei vescovi non si piegarono neppure di fronte a quelle misure estreme ed altri si disimpegnarono valendosi delle stesse armi che il papa aveva usato contro di loro, l'abuso dell'autorità spirituale e delle forme dei diritto.
Il vescovo Wolfger di Passau si sottrasse ai pericoli che gli andava preparando Innocenzo III prestandogli un giuramento che con tutta verosimiglianza fu uno spergiuro. L'arcivescovo di Colonia in analoghe condizioni fece notevoli concessioni alla città di Colonia, e così Innocenzo III indirettamente contribuì allo sviluppo dell'autonomia di essa che doveva poi imporre nuove e durevoli limitazioni ai poteri del vescovo.

Ovunque si penetra a fondo nei particolari delle lotte ingaggiate da Innocenzo III e dai suoi successori si rileva quanto fosse poco saldo l’edificio apparentemente così grandioso della potenza dei papi.

La chiesa inglese fu così costante nell'opporsi allo sperpero dei benefici inglesi a vantaggio di favoriti del papa che si ha l'impressione che nel XIII secolo la curia abbia logorato inutilmente in questa lotta la maggior parte delle sue energie. Questa impressione suscita poi in ogni caso la vita del vescovo di Lincoln, Roberto Grosseteste, il maestro e protettore dei grandi francescani inglesi di quel tempo, che visse nel centro del movimento letterario, politico ed ecclesiastico della sua epoca.
E l'impressione ci è rinsaldata dal contegno brusco tenuto dall'Università di Oxford verso gli agenti di Roma, e dalla risposta data dalla città di Londra all'interdetto fulminato contro di essa da papa Onorio:
«Non si accettano ordini del papa quando si tratta di affari di Stato».

E quando il vescovo di York fu scomunicato perché si opponeva allo sfruttamento della chiesa inglese da parte della curia, sfruttamento che aveva oltrepassato ogni misura sotto il debole governo di Enrico (1217- 72), «gli Inglesi tanto più lo benedissero, quanto più il papa lo scomunicava».

I grandi uomini di Stato del presente periodo, Stefano Langton, Uberto de Burgh, Simone di Monforte, il vescovo Grosseteste, il filosofo Ruggiero Bacone ed il famoso monaco Malthaeus Parisiensis, il più grande degli storiografi inglesi del medio-evo, e tutti coloro che partecipavano attivamente alla vita pubblica, erano concordi nello sdegno contro la curia per le sue smisurate pretese e per le sue ingerenze perturbatrici della chiesa e dello Stato.

Era appunto nell'Inghilterra e nella Francia che papa Innocenzo IV aveva cercato appoggio nella lotta contro Federico Il, e questi due regni per gelosia verso l'imperatore o per motivi occasionali di nessun conto glielo avevano concesso; ma ambedue i paesi si ribellarono poi contro il papato reso intollerabilmente arrogante dai suoi successi.

A quel tempo vediamo più decisamente affermarsi anche la teoria che il papa avesse il potere di prosciogliere gli uomini da ogni giuramento e dalla fede ai patti. Chi violava il giuramento nell'interesse del papa, il vassallo che ad onta del suo giuramento di fedeltà abbandonava il suo signore e lo combatteva in servizio del papa, non commetteva peccato.

Questa teoria e l'applicazione fattane dai papi non poteva a meno di muovere a sdegno i re ed i popoli e turbare le coscienze, tanto più che la politica dei papi, come quella di tutti gli Stati militarmente deboli, faceva dei frequenti e spudorati voltafaccia. Si comprende pertanto, come allora si siano generalizzate delle idee che ebbero un rappresentante tipico in Ezzelino da Romano e che risaltano dai cupi quadri della vita dei grandi signori, disegnati dagli accusatori dei Templari a principio del XIV secolo, e dai non meno cupi accusatori di papa Bonifacio VIII.

Non meno deleterio fu l'abuso fatto dalla chiesa dell'acquistata ingerenza in materia matrimoniale. Il processo di divorzio del re Lotario Il di Lorena nel IX secolo noi lo vediamo ancora trattato dinanzi ad un tribunale civile, e fin nell'XI secolo perdurò il concetto fondamentale che il matrimonio era un istituto di carattere civile.
Ma la chiesa, con la dottrina degli impedimenti, e sopra tutto con l'estensione data agli impedimenti per ragione di parentela; poi con la teoria della natura sacramentale del matrimonio che essa riuscì a far trionfare completamente nel XII secolo; da ultimo con l'organizzazione migliore della giurisdizione ecclesiastica e con l'estensione delle sue competenze, si procacciò una quantità di occasioni e di pretesti per ingerirsi nelle questioni di successione delle famiglie regnanti, e nelle questioni di famiglia dei principi, nonché dei cittadini e contadini, che costituì una continua tentazione per abusarne.

Numerosi sono gli esempi che, da Gregorio VII sino alle questioni matrimoniali di Ottocaro di Boemia sotto papa Alessandro IV, ci dimostrano come la competenza di giudicare sulla validità o nullità dei matrimoni, le dispense dagli impedimenti di parentela ed il rifiuto di queste dispense, fossero divenuti semplicemente uno dei tanti strumenti di guerra della curia di questo periodo che li adoperava secondo i bisogni della "sua" guerra personale a questo o a quell'altro sovrano.
La spudoratezza con cui si abusò per gli interessi della curia dei giuramenti e del matrimonio ha forse indubbiamente contribuito a far germogliare quella letteratura irriverente ed a far dilagare quella satira che ha particolarmente contribuito alla decadenza della generale devozione verso la chiesa e verso le autorità ecclesiastiche.

Già ai tempi di Barbarossa gli scolari impertinentemente cantavano:
Roma mundi caput est, sed nil capit mundi.
Cum ad Papam veneris habe pro constanti
non est locus pauperi, soli favet danti.
(vale a dire : Roma é la capitale del mondo ma é colma di sozzure. Se vuoi qualcosa dal papa, tienti bene a mente che ai poveri Roma non dà ascolto, ed appoggia solo chi paga).

Ed all'inizio del XIII secolo Gualtiero von der Vogelweide mosse ai papi aspre censure analoghe. Egli era un devoto, ed anche un entusiasta delle crociate, tanto che ancora nella vecchiaia manifestava il desiderio di andare a guerreggiare in Terra Santa. Ma quando Innocenzo III aizzò la guerra civile tra le fazioni di Filippo di Svevia e di Ottone IV, Gualtiero accusò i preti «di scomunicare chi volevano e non chi dovevano».
"Il papa, egli dice ancora - non é più un pastore é divenuto un lupo tra le sue pecore; egli lega i vescovi e i prelati nella rete del diavolo, mercanteggia la grazia divina, segue gli insegnamenti del libro nero che gli ha dato il diavolo. I preti menano una vita dissoluta; il papa stesso aumenta il numero dei miscredenti; egli raccoglie denaro per la Terra Santa, ma la Terra Santa ne vedrà ben poco, perché la massima parte andrà a finire nelle mani dei preti. Pazzi e stolti i Tedeschi se concorreranno a tale colletta per la Terra Santa".
Analogo ed anche più acerbo é il linguaggio di Gualtiero in altri passi; né lui rimase il solo a pensarla così; gli stessi sentimenti erano largamente diffusi nella società. A Utrecht, a Basilea, a Regensburg ed in altri luoghi i cittadini si sollevarono contro i vescovi ed i monaci che predicavano contro l'imperatore; ed a Federico Il non mancarono sino alla morte numerosi partigiani, consiglieri e soldati. Per quanto questo o quello dei suoi aderenti si lasciasse intimorire dalla scomunica, tuttavia l'imperatore conservò il sopravvento ed il papa non riuscì a vincerlo.

Dopo la morte di Federico Il il papa poté distruggere il suo impero, ma non fu in grado di sostituirvene un altro. Egli aveva così di frequente minacciato ai fedeli dell'imperatore le ire del cielo, che costoro finirono per abituarsi ed impararono a tenere in non considerazione tali minacce.

In Italia, come in Inghilterra, in Francia, in Germania e nei paesi nordici, dappertutto incontriamo uomini che non si lasciavano più atterrire da queste armi spirituali; ma molti rimasero con la convinzione che la scomunica papale era un sopruso; anche se alcuni al momento della morte ebbero qualche rimorso di coscienza.

Allorché re Sverrir di Norvegia, che era stato scomunicato, sentì avvicinarsi la morte, si fece mettere sul suo trono {era il 9 marzo 1202) e disse: «Quando sarò morto, lasciate il mio viso scoperto, e permettete ad amici e nemici di esaminare se sul mio cadavere si trova qualche traccia dell’anatema con cui mi hanno colpito i miei nemici, giacché allora io non la potrò certo nascondere».

Gli abusi della curia, l'ingordigia e la lussuria di molti ecclesiastici, favorirono il sorgere ed il diffondersi di eresie e scismi, che andarono sempre aumentando dal XII secolo in poi.

Le sette più influenti dovettero la loro origine al convincimento che i preti ed i monaci si erano mondanizzati e non servivano a Dio come si doveva e che delle vere abitudini cristiane di vita non avrebbero potuto risorgere se non in virtù della grazia di Dio e per opera personale dei fedeli. Immergendosi totalmente in Dio ed abbandonandosi alla sua volontà, rinunziando al mondo e serbando una condotta da santo, così soltanto il cristiano poteva entrare in una più intima comunione con Dio. In taluni prevalse la tendenza mistica, in altri la tendenza ascetica ed alle opere di carità e di abnegazione.
Erano le stesse tendenze che nel XIII secolo si manifestarono negli ordini dei mendicanti ed in molti gruppi affini, nel seno della chiesa e tra laici. Si può dire soltanto un caso che Pietro Valdus da Lione, il pio condottiero dei «poveri», perseguitati dai papi con particolare furore, non sia stato venerato come un santo, ma perseguitato come un eretico.

E viceversa i fondatori e capi degli ordini dei mendicanti furono non di rado ad un pelo di essere condannati come eretici. Anche il profeta Gioacchino da Fiore in Calabria (m. 1202), ammirato non solo dalle folle, ma anche dai grandi della terra e da tre papi, fu sospettato di eresia per parte di influentissimi gruppi monastici, e nel XIII secolo fu per lungo tempo dibattuto se la chiesa lo dovesse santificare ovvero condannare come eretico. Tanto poco tranquilla era la chiesa internamente nell'epoca in cui aveva tratto in sua mano il potere temporale.

Al culmine della loro potenza i papi si videro minacciati da una ventata di eresie, ed allora si abbandonarono ad un furore cieco. Nei centri ove queste eresie si diffondevano essi non agirono da pastori che cercano di ricondurre sulla retta via gli smarriti, ma come padroni cui siano fuggiti degli schiavi. Terribili furono le torture inflitte agli infelici dichiarati colpevoli di eresia, nè i loro giudici si commossero al vedere che essi sopportavano tutto per amore di Cristo, ed anche mentre le loro carni ardevano nelle fiamme del rogo invocavano il nome di Dio.

Dalle persecuzioni contro singoli eretici Roma si passò poi allo sterminio di intere città e regioni in cui gli eretici erano o si affermava che fossero in prevalenza. E come vi infierirono i suoi carnefici!
Fra tutti questi orrori é cupamente famosa la terribile crociata contro gli Albigesi della Francia meridionale e contro il conte di Tolosa sospetto di esserne il protettore. Quando nel 1208 le orde selvagge assoldate dalla chiesa espugnarono Béziers e si diedero ad un massacro che non risparmiava ne età ne sesso, molti degli infelici abitanti protestarono angosciosamente di non appartenere alle sette ma di esser fedeli alla Chiesa. I soldati chiesero all'abate Arnaldo di Citeaux, il legato del papa che capitanava la crociata, che cosa dovessero fare, giacché essi non erano in grado di accertare chi fosse realmente fedele alla chiesa. L'abate rispose: «Uccideteli tutti; Dio sceglierà i suoi».

E nella sua relazione a papa Innocenzo III egli scrisse a proposito di tale ecatombe «che la vendetta di Dio aveva mirabilmente imperversato sulla città (ultione divina in eam [civitatem] mirabiliter saeviente)».

Questa furia di persecuzione ebbe come strumento di esecuzione della gentaglia che avrebbe dovuto per il solo fatto del suo carattere morale ripugnare alla chiesa, se il sentimento cristiano non fosse stato in essa soffocato dalle idee preconcette sulla missione e potenza della Chiesa e dalle basse cupidigie che si nascondevano sotto questi scopi apparenti o vi si accompagnavano.
Avventurieri avidi di conquistarsi dei territori, vicini nemici piombavano sui paesi che Roma aveva colpito di scomunica, e chi aveva interesse ad abbattere un suo nemico cercava di metterlo in sospetto di eresia ed otteneva un decreto di persecuzione dei pretesi eretici.

Cosi furono distrutti i valorosi contadini di Stedingen e le loro terre ubertose andarono ripartite allo stesso modo di quelle degli Albigesi. È incalcolabile la quantità di sangue che è stata versata nel XII e XIII secolo in nome della Chiesa o per istigazione di essa. Tuttavia é vero che la Chiesa cercò volentieri di conservarsi le mani lorde di sangue, affidando al braccio temporale le esecuzioni delle punizioni inflitte agli eretici che condannava. Ma le autorità civili che mettevano questi infelici nelle mani del carnefice, agivano dietro ordine della Chiesa.

Nei concilio Laterano del 1215 Innocenzo III aveva fatto stabilire che le autorità secolari (saeculares potestates quibuscunque fungantur officiis) dovessero giurare di sterminare nei territori soggetti alla loro giurisdizione tutti gli eretici loro designati dai giudici ecclesiastici. «Chi rifiuta di prestare questo serv1g10 dovrà essere scomunicato dall'arcivescovo e dai vescovi della provincia. Il papa proscioglierà dal giuramento di fedeltà i costui vassalli e permetterà ai cattolici di occupare il paese e purificarlo dagli eretici (vasallos ab eius fidelitate denunciet absolutos et terram exponet catholicis occupandam)».

Richiamandosi a questo decreto conciliare ed in parte ripetendolo letteralmente, Federico Il emanò nel 1220 una costituzione sulle pene temporali cui sarebbero andati incontro gli eretici: l'infamia e la confisca dei beni.
Con un editto posteriore emanato per la Lombardia Federico comminò contro gli eretici la morte sul rogo; e la stessa pena venne poi introdotta in Germania. La cosa più terribile era poi che il procedimento del tribunale ecclesiastico privava gli accusati quasi di ogni possibilità di scolparsi. Nel processo in cui Filippo il Bello fece condannare come eretici i Templari le indegnità di questo sistema si rivelarono in tutta la loro scandalosa evidenza; ma migliaia di altri infelici vennero ugualmente maltrattati conservando le forme esteriori della giustizia.
All'accusato non si facevano conoscere chi fossero i testimoni che lo avevano fatto incriminare. A testimoniare vennero ammessi anche delinquenti e spergiuri. Le testimonianze degli eretici, se queste erano a discarico, non si ammettevano (e bisogna dire che nessuno si offriva di farlo per non essere a sua volta accusato di eresie e finire pure lui sotto processo), mentre si ammettevano se erano a carico; in questo caso anche se loro stessi erano eretici.

Nell'XI e nel XII secolo si seguirono ancora le forme normali del procedimento giudiziario, le quali però lasciavano ben poca speranza all'accusato, dal momento che spesso per discolparsi altro mezzo egli non aveva che la prova del fuoco o dell'acqua bollente. E l'assurdità di tutto ciò a lungo andare divenne così stridente che Innocenzo III vietò tale procedura. In sostituzione venne nel XIII secolo introdotta la tortura ed un sistema probatorio che non lasciava a priori via di scampo all'accusato, era il più adatto a far perdere ogni senso di giustizia al popolo e sopra tutto agli stessi inquisitori.
«Questa procedura era una caricatura di procedimento giudiziale, la più iniqua forse che la crudeltà e l'arbitrio abbiano mai saputo inventare».
Inoltre furono istituiti tribunali straordinari d'inquisizione ed affidati agli ordini dei domenicani e dei francescani; questi tribunali erano muniti di poteri del tutto eccezionali e perciò ebbero frequenti e gravi conflitti con i vescovi di cui venivano a limitare la giurisdizione. Si ebbero pertanto ora due specie di tribunali d'inquisizione l'una accanto all'altra: il tribunale del vescovo e quello dell'inquisitore straordinario.

Il modo con cui essi procedevano era sostanzialmente uguale, ma per rigore si segnalarono particolarmente le commissioni straordinarie dei frati mendicanti. Nel corso del XIII secolo esse acquistarono tale potenza che tutte le autorità dovettero piegarsi dinanzi a loro e mettersi ai loro servizi. A mala pena i più alti prelati della stessa curia poterono sottrarsi ai loro artigli o strappar loro una vittima.
Gli inquisitori nel loro cupo mestiere usarono di una quantità di stratagemmi, e sopra tutto quello di spingere alla delazione con l'assicurazione della grazia divina della povera gente che non sapeva, in una materia così piena di sottigliezze teologiche e di controversie, che con una sola parola o con un semplice atto rendeva sospetta se stessa o i suoi conoscenti.

Così avveniva che molti accusavano se stessi per acquistarsi più facilmente la grazia divina; ma, quel che è più, i genitori accusarono i figli, i figli i genitori, gli amici gli amici. Costoro si lasciavano carpire l'accusa perché erano suggestionati dalle prediche e dal contegno della commissione inquisitoria, ovvero erano intimiditi dalle minacce degli «aiutanti» di questi inquisitori, che non di rado erano reclutati tra persone equivoche dal momento che non si trovava facilmente chi volesse prestarsi a un simile obbrobrioso ufficio.

Sotto l'egida dei privilegi delle commissioni queste spie divennero un vero flagello dei popoli, sopra tutto dopo che Innocenzo III ebbe concesso agli inquisitori il diritto di assolvere questa gente se si fosse resa colpevole di reati comuni. Una innocente abitudine, una parola fraintesa od un atto occasionale potevano bastare a render sospetti. E non vennero perseguitati soltanto gli affiliati a sette religiose che praticavano un culto diverso o si astenevano dal praticare il culto comune; anzi la caccia preferita degli inquisitori e dei loro segugi fu quella diretta a scovare gli eretici non palesi, che esteriormente cioè si comportavano correttamente, ma nell'intimo del loro animo professavano idee eretiche ovvero le manifestavano se si trovavano in mezzo a persone (considerate da loro) fidate.

Il fiorire delle sette e le conseguenti persecuzioni degli eretici furono un portato dell'eccessivo esclusivismo della chiesa in materia di dogmi e di istituzioni ecclesiastiche e della sua pretesa, continuamente contraddetta dai fatti, che fosse possibile dimostrare scientificamente veri questi dogmi.
Tale dialettica piena di sottigliezze e di cavilli non poteva a meno di suscitare opposizioni. E perciò la chiesa preferì togliere subito ai laici la possibilità di riflettere sui dogmi rivelati vietando le versioni della bibbia (Del Vecchio Testamento).
«Dio ha voluto appositamente - scrisse Gregorio VII quando vietò che si usasse nel culto la lingua slovena - che alcuni passi delle sacre scritture fossero oscuri (sacram scripturam quibusdam locis esse occultam) per evitare che, essendo in tutto chiara, scadesse nella stima delle genti o fosse fraintesa dai meno accorti inducendoli a perdizione».
Innocenzo III proibì nel 1199 l'uso di versioni francesi degli evangeli, delle lettere di Paolo, dei salmi, del libro di Giobbe o di altri libri della bibbia, che erano molto diffuse a Metz nel ceto laico. Questi divieti nel corso del XIII secolo furono più volte ripetuti ed in forma più generale; ma essi non fecero che privare del necessario alimento, intellettuale proprio i più religiosi fra i laici. Le persecuzioni degli eretici perciò anche sotto questo riguardo condussero all'abbassamento intellettuale ed alla rozzezza dello stesso ambiente ortodosso.

Altra origine ebbero le numerose deviazioni dal dogma ortodosso che videro la luce nei libri e nelle dispute dei dotti. Di fronte ad esse la chiesa si mostrò più moderata, considerando la maggior parte di queste audaci manifestazioni di principi e di opinioni eretiche come chiacchiere dottrinarie fatte senza seria intenzione di difenderne la verità. E tali erano infatti, giacche la loro fonte deve trovarsi nei metodi scientifici del tempo che allettavano, anzi costringevano a queste vane schermaglie.
Perciò i papi con appositi privilegi concessero alle Università il diritto di assolvere i propri membri quando si fossero resi colpevoli dell'esposizione di false dottrine e fossero incorsi in pene spirituali.
I tribunali d'inquisizione dei francescani e dei domenicani non diedero luogo soltanto agli accennati conflitti con i vescovi, ma si accapigliarono anche tra loro. Essi si invidiavano reciprocamente i successi e l'influenza acquistata con l'esercizio della giurisdizione speciale. Gli inquisitori che conducevano giorno e notte una vita monastica tutta occupata da esercizi spirituali e preghiere diedero spesso al mondo spettacoli di alterchi insensati e di basse passioni.

Su che vasta scala l'arbitrio e la partigianeria teologica dovesse regnare in tutti questi tribunali e con quanta facilità una frase potesse essere fraintesa o abusata, lo si può indurre dalla violenza con cui i teologi d'allora disputarono ad esempio circa il dogma dell'immacolata concezione di Maria, come dal fatto che l'Inghilterra dovette vedere per anni ed anni in lotta con Roma il suo venerato vescovo Roberto Grosseteste, ovvero ancora dagli esempi di processi contro eretici di cui abbiamo notizie più dettagliate.

Particolarmente famoso é rimasto il processo per eresia intentato contro uno dei più celebri teologi di quei tempi, orgoglio dell'ordine dei domenicani, l'Eckhardt (1326). L'accusa si basava su sottigliezze scolastiche di nessuna importanza religiosa, se pur si può dire che avessero un senso qualsiasi: ma quanto più le questioni erano futili, tanto più la lotta vi si svolgeva attorno accanita. E per simili inezie moltissimi vennero condannati, a cominciare dal monaco Godescalco (IX secolo) sino alle vittime del XIII e XIV secolo. L'Eckhardt era allora il più famoso insegnante della scuola tenuta dai domenicani a Colonia, ed aveva tanta autorità che poté osare di tener testa al tribunale dell'inquisizione e di appellarsi al papa.

Il tribunale, benché il suo appello lo ritenesse frivolo, non osò non inoltrarlo ed il papa quando lo ricevette avocò alla curia la decisione.
L'Eckhardt morì prima di questa decisione, ma già condannato per avere in venti luoghi manifestato dottrine eretiche e sospette di eresia. Ma prima di morire aveva già ritirato tutto quello che aveva potuto dire di contrario al dogma ortodosso (o almeno così fu poi detto, forse per non farne un pericoloso martire).

Verso la stessa epoca morì nelle stesse condizioni un altro celebre domenicano, Tolomeo da Lucca, allievo di S. Tommaso, di cui completò lo scritto De regimine principum rimasto incompleto. Egli era vescovo di Torcello ed in occasione dell'elezione controversa dell'abbadessa di un convento di monache, aveva ostinatamente rifiutato di accettarla e quindi di obbedire agli ordini del suo superiore, il patriarca di Grado. Per questo fatto fu scomunicato e si sottomise anche lui (ma non sappiamo come) prima di morire (1322).

Queste lotte e le altre anche più violenti circa le nomine ai benefici più cospicui erano all'ordine del giorno in tutte le province della chiesa e gli ultimi esempi ora accennati che si riferiscono al XIV secolo sono tipici ed anche in maggior numero per i due secoli precedenti.

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MONACHISMO ED ASCETISMO

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Una attenuante possono trovare gli abusi che sopra abbiamo visto moltiplicarsi in materia di benefici ecclesiastici nella considerazione che le chiese e le fondazioni ecclesiastiche erano in buona parte state fondate dalla classe dirigente ovvero per lo meno erano state arricchite dalle sue donazioni. Essa perciò aveva, secondo le idee del tempo, il diritto di sfruttarle per il collocamento dei propri figli e delle proprie figlie. Lo stesso fenomeno si rileva anche più chiaramente nella storia delle istituzioni monastiche.

In sé i monaci non erano ecclesiastici, ma laici; però le istituzioni monastiche furono un prodotto della coscienza religiosa medioevale, e vennero a formare parte integrante dell'organizzazione ecclesiastica del Medioevo. I monasteri perciò erano soggetti alla sorveglianza delle autorità ecclesiastiche. Inoltre molti monaci avevano pure gli ordini sacri e vi erano gruppi di preti che facevano vita comune sotto forme monastiche.

Il monachismo deve la sua origine al bisogno del cuore umano di attutire, mediante una rigida disciplina del corpo, gli stimoli degli appetiti sensuali. Ut arctiori se vita et eremi squalore constringeret, dice la Vita Sturmi del giovane bavarese, che poi sotto la guida di Bonifacio fondò il monastero di Fulda. «Divenire più accetto a Dio ed avvicinarsi a lui meglio di quello che fosse possibile nel tumulto della vita ed in mezzo alle tentazioni ad essa inerenti necessariamente».

È questo un fenomeno che il cristianesimo ha comune con l'islamismo e con le religioni dell'India, ma sotto forme in complesso più temperate. In ciò si può certo vedere una prova della maggiore attitudine del cristianesimo ad assumere forme più civili; ma la spiegazione di tale più mite concezione dei castighi della carne non va ricercata soltanto in questo. La più sana costituzione politica e sociale della cristianità occidentale ha preservato la Chiesa cristiana dal cadere nelle esagerate folli di torture e flagelli inflitte al proprio corpo che si vedono tuttora praticate spesso nell'India ad onta del carattere elevato della religione.
Peraltro nel Medioevo non mancano esempi che ci dimostrano come anche la Chiesa dei popoli romano-germani ci corse il pericolo di smarrire in questa materia la retta via.
Basta ricordare la crociata dei fanciulli che, in omaggio ad una fantastica interpretazione di alcuni passi della bibbia, votò ad una morte crudele migliaia di bambini o li condannò ad una fine anche peggiore come la schiavitù. Fu un olocausto di sangue umano non meno orribile dei sacrifici umani del culto di Baal.
Oppure basta pensare agli scandalosi spettacoli che accompagnarono la fede nel potere soprannaturale delle reliquie, al fanatismo che induceva i devoti a manomettere le chiese per rubarvi delle reliquie, alla fabbricazione ed al mercato di supposte reliquie; od anche agli orrori delle persecuzioni degli eretici ed alle conseguenze delle scomuniche e degli interdetti.

Già i termini in cui erano concepite le formule di questi anatemi ripugnano al senso morale di un animo incivilito. La passione religiosa e l'orgoglio od il fanatismo ascetico abbrutisce il cuore umano allo stesso modo che ogni altra passione ed ogni altro eccesso.

Ma la chiesa fu preservata dall'accennato pericolo e fu aiutata a superarlo dalle tradizioni della cultura dell'antichità classica che di volta in volta si ravvivarono, e poi dal già ricordato buon senso dei popoli occidentali e dall'incivilimento laico, che manifestò le sue energie nella sempre rinnovata restaurazione degli ordinamenti politici e sociali decadenti ed offrì alla chiesa sempre nuove risorse e le impose sempre nuovi compiti. Ma sopra tutto la chiesa trovò per combattere quel pericolo una forza in sé stessa, nello spirito cioè delle istituzioni romane cui era debitrice l'organizzazione grandiosa della Chiesa. I vescovi ed in ultima analisi lo stesso papa avevano il massimo interesse a non lasciare che quelle tendenze mistiche prendessero il sopravvento, per quanto Roma abbia saputo ravvivarle e sfruttarle quando si trattava di sollevare le masse contro un sovrano temporale o di infiammarle di entusiasmo per le crociate.

L'ascetismo, questo bisogno o questa brama di rendersi accetto a Dio con la più assoluta rinunzia a tutte le naturali aspirazioni del cuore ed a tutti gli agi della vita materiale, ovvero (come lo caratterizza l'allievo e biografo dell'arcivescovo Bruno di Colonia, il fratello dell'imperatore Ottone I) il desiderio di combattere da solo a solo col diavolo (singulari acie contra diabolum dimicaturi solitariam vitam appetere), ebbe la sua manifestazione più schietta nell'anacoretismo.

Gli anacoreti o eremiti furono un fenomeno assai più diffuso nei secoli antecedenti ed in Oriente che non nel nostro periodo ed in Occidente, ma non ne mancarono neppur qui e nell'epoca di cui ci occupiamo, come non mancarono esempi di esagerazione di tale tendenza. È difficile giudicare convenientemente questi fenomeni, perché talvolta essi suscitano il ribrezzo e lo scherno, talvolta eccitano l'ammirazione e la compassione. Perciò ci limitiamo a ripetere le parole di Ernesto Dummler, il quale conosceva come nessun altro il periodo comprendente il IX e X secolo e lo ha giudicato sempre con serenità e benevolenza.

Nella sua opera «L'imperatore Ottone I», egli scrive a pag. 550:
«Il sentimento religioso non si manifestò soltanto nel culto esteriore e nel monachismo, tanto più che questo non fu regolato se non a poco a poco. Non mancarono infatti accanto ai monaci, spesso assai numerosi, gli eremiti, maschi e femmine, che cercarono nella solitudine delle foreste o di una cella la soddisfazione delle loro tendenze ascetiche e col crudele trattamento di se stessi si acquistarono la massima venerazione ed il massimo seguito... Per molti questa vita solitaria non fu che un periodo di preparazione al chiostro, che poi riempirono del loro spirito ascetico... Presso S. Gallo visse da anacoreta la rigida Wiborada, che S. Udalrico frequentò come maestra (m. 926), dopo di lei la sua parente Rachilde (m. 946), poi Kerilde (952-1008), Perehterat (m. 980), Cotelinda (m. 1015), nonché ecclesiastici, come Hartker (m. 1011). Presso il monastero di Drubeck dimorò Sisu, una eremita che per 64 anni non lasciò la sua cella, mai scaldata da fuoco, e che da ultimo, benché immobilizzata e preda, ancor viva, dei vermi, continuò ad essere maestra celebrata del popolo (m. 16 febbraio 1020)».
Si pensi in quale stato di sudiciume dovesse ridursi questa gente e quale lacrimevole ristagno e sconvolgimento dovesse subire il loro spirito. Era immensamente pericoloso che il popolo esaltasse come esempi da prendersi a modello e come maestri degli uomini così squilibrati e spesso semplici santi di mestiere. Va quindi lodata l'energia di cui diede prova la chiesa esercitando incessantemente una attiva sorveglianza su questi eremiti d'ambo i sessi e reprimendo gli abusi.

Di fronte al monachismo, l'anacoretismo rappresentò nel medioevo una parte secondaria; e ciò forse per la circostanza che le tendenze ascetiche trovarono soddisfazione ad opera di alcuni fondatori di ordini monastici, i quali si ritirarono con i loro monaci nelle solitudini, fabbricandovi, invece di conventi, delle celle separate e misero così i loro compagni nella possibilità di vivere sostanzialmente da eremiti senza rinunziare ad ogni ordine e sorveglianza.

Così ad esempio S. Romualdo, nato a Ravenna verso il 950, fondò parecchi chiostri che consistevano in gruppi di celle di quel genere, ma erano sottoposti ad una regola comune e subordinati ad un superiore; il che valeva ad evitare i peggiori pericoli dell'anacoretismo.
Il più famoso di tali chiostri fu quello di Camaldoli presso Arezzo, i cui monaci ottennero nel 1072 dal papa la conferma della loro regola. A questi frati solitari Camaldolesi somigliavano i Carmelitani, il cui ordine fu fondato sulla fine del XII secolo da un crociato italiano sul monte Carmelo in Palestina, ed i Certosini che S. Bruno di Colonia raccolse attorno a se nel 1086 in una selvaggia gola montana presso Grenoble.

I fondatori di questi ordini di colorito ascetico avevano per lo più conosciuto precedentemente molto del mondo e delle sue opere. S. Romualdo usciva da una nobile famiglia ed aveva avuto non pochi contatti con i grandi della terra, e S. Bruno di Colonia aveva goduto di una posizione assai autorevole a Colonia ed a Reims che allora erano centri importanti della vita pubblica francese e tedesca, aveva fatto degli studi e diretto una scuola, prima di darsi alla vita da eremita.
Ad uomini come questi intendeva alludere Gualtiero von der Vogelweide quando fa deplorare da un eremita i maliche aveva procurati alla chiesa la donazione di Costantino. Ed essi godettero di una particolare fiducia, sicuri come si era che, inaccessibili alla corruzione ed al timore, avrebbero espresso liberamente il proprio giudizio e difesa la causa del giusto. Ed infatti spesso i principi chiesero a essi consigli, e così poterono rientrare in contatto con le vicende della vita, isolandosi dalle quali un cuore umano non può che inaridirsi o smarrirsi.

Oltre questi uomini che liberamente si erano proposto come ideale il più rigido ascetismo, cercarono rifugio nei romitaggi le esistente spezzate, oppresse dal peso di un grave delitto o di una grave colpa, che altra via non trovavano per sfuggire alla miseria e alla vergogna ovvero che altrimenti credevano di doverla far finita con la vita. A quel tempo la si finiva con la vita rinchiudendosi in una cella od in un convento e non come oggi col suicidio appena vi è una banale depressione. Ed indubbiamente la cella risolveva da questo lato dei problemi per i quali l'età nostra non ha saputo trovare una soluzione migliore.

Ma ben diversa era l'influenza che l'ascetismo esercitava su coloro che, ancor giovani e di scarsa intelligenza, si davano alla vita ascetica, spintivi dalla sorte avversa o dalla moda. Costoro, invece di acquistare maggior purezza di sentimenti mistici, divenivano schiavi di un rozzo fanatismo.
Gli antichi anacoreti della Tebaide avevano un proverbio: che cioè un monaco era capace di tenere a bada una legione di diavoli, un eremita dieci legioni.

E quando una volta un ragazzo fu ritenuto dai monaci capace di far miracoli, il vecchio abate lo fece frustare e tener rinchiuso per sette giorni affinché non diventasse troppo orgoglioso e che si prendesse troppo sul serio.
Fu pertanto una fortuna per la chiesa medioevale che l'anacoretismo, ad onta dell'ammirazione delle masse e della venerazione tributata da imperatori e principi ad es. ad un S. Nilo e ad un S. Romualdo, abbia assunto uno sviluppo assai inferiore al monachismo.

La vita claustrale rappresentava una forma di ascetismo più mite, ed evitava quell'inaridimento del cuore che non può a meno di sopraggiungere nell'uomo che non pensa che a sé, che non si preoccupa se non di sé stesso, sia pure che creda di farlo unicamente per la salute della propria anima.
Il monastero imponeva la necessità di occuparsi dei propri confratelli non solo, ma per lo più costringeva anche ad avere contatti di vario genere con l'esterno. Ed è questo anzi il punto che occorre tenere ben presente se si vuol comprendere l'importanza dei monasteri nel Medioevo.

L'originario scopo dei chiostri fu certamente quello di procurare un rifugio alle anime placide che desideravano ritirarsi dal mondo e dedicarsi completamente alla contemplazione delle cose eterne. Se non che i chiostri avevano beni da amministrare e diritti da tutelare. E così ebbero continuamente da fare con città, villaggi e feudatari che confinavano con i loro possedimenti ovvero che illegalmente volevano concorrere all'uso dei loro boschi, delle loro acque, dei loro pascoli, o contestavano i loro diritti. I loro vassalli, advocati, ministeriali spesso si permettevano eccessi che obbligavano il convento ad intervenire, i loro servi pure davano da fare, sia che v o lessero sposare persone della loro condizione soggette ad altro padrone, sia che commettessero dei delitti o viceversa rimanessero vittime di violenze e chiedessero protezione.

Di qui una serie di occupazioni cui anche il più desideroso di solitudine non poté sottrarsi, perché si trattava dei beni della chiesa, o, come si soleva dire, del santo cui era dedicato il convento. Così i conventi divennero centri di aziende agricole che ebbero grandissima influenza sull'economia generale e sul progresso dei popoli. Non pochi di essi vennero fondati a bella posta perché servissero da pionieri dell'esecuzione di grandi opere. Come Bonifacio un tempo aveva fondato nelle foreste della Germania conventi di frati e di monache agli scopi della conversione, conventi nei quali si sviluppò un dilettantismo letterario insieme con un febbrile entusiasmo religioso ed un ardente spirito di proselitismo, così nei secoli X-XIII, quando si intraprese e si conseguì la conversione degli Slavi e dei popoli nordici, i conventi servirono non solo come centri da cui irradiava la predicazione, ma anche come centri di colonizzazione ed esplicarono talune forme di lavoro artistico e scientifico.

Non tutti i conventi celavano dei dotti entro le loro mura, ma di rado vi mancavano completamente persone abili in questo o quel ramo di lavoro e che sapessero leggere e scrivere. Molti conventi in Inghilterra, Francia, Germania, Italia e regioni adiacenti furono spesso le uniche scuole esistenti sopra una vasta estensione di territorio, gli unici custodi della tradizione letteraria e rappresentanti di una forma di letteratura. Gli unici a conservare preziosi manoscritti di ogni epoca.

I monasteri di Fulda, Hersfeld, Corvey, Gandersheim, Quedlinburg, in Sassonia e Turingia, furono nel periodo dal IX al XII secolo, ed ancora nel XIII, centri di vita intellettuale assai superiore a quelli comuni, ed un grande contributo alla colonizzazione dei paesi slavi dettero nel XII e XIII secolo i monasteri dei cistercensi.
Sotto variatissime forme si resero poi benemeriti in Germania i monasteri di S. Gallo, Reichenau, Gembloux, Prum, Magdeburgo e molti altri; e lo stesso deve dirsi per l'Inghilterra, la Francia e l'Italia quanto ai monasteri di Canterbury, S. Eduardo, Bee, S. Albano, Monte Cassino, S. Dionigi, etc.

Se non che dopo due o tre generazioni in un monastero la disciplina di solito decadeva. Ne incontriamo prove talora curiosissime; vicende gravi e futili questioni come quelle che possono agitare comunità di dieci, venti, trenta od anche più persone. Il convento di Schònau vicino ad Heidelberg, in seguito ad una congiura dei conversi, malcontenti perché non erano stati loro forniti gli stivali cui avevano diritto, ebbe a subire vicissitudini così incresciose che in seguito ne fu soppresso il racconto nei manoscritti.

E molti altri conventi sciuparono il tempo e l'attività in analoghe futilità ed in analoghe beghe. Ma non pochi altri subirono ben più serie vicende. Essi furono sconvolti da gravi lotte interne tra partigiani dell'impero e partigiani della Chiesa, o da conflitti dogmatici, o più spesso da tentativi di rigoroso ristabilimento della regola non più osservata con esattezza. Specialmente questi tentativi procurarono spesso ai monasteri i più gravi guai, giacchè celavano delle mire dispotiche o attinenti alle rendite. E non di rado vicini invidiosi approfittarono dell'occasione per piombare sui conventi come avvoltoi, talora sotto la maschera di riformatori, talora senza questa maschera.
Non bisogna credere di trovare nella generalità dei monaci quell'ideale di purità di sentimenti e di santità che ci immaginiamo debba accompagnare una vita dedita alle pratiche di devozione. Queste pratiche diventano un'abitudine e perdono la parte migliore della loro efficacia se non sono congiunte all'energia intellettuale e morale.

Vediamo infatti ancora oggigiorno dei popoli il cui livello morale é assai basso, e che pure passano la loro vita nella stretta osservanza giornaliera di riti e forme religiose. Non bisogna farsi dunque una idea troppo elevata del monaco medioevale, né desumerne il tipo dalle caratteristiche di talune figure ideali del genere.
Lo zelo e l'abnegazione, che in certi momenti prevalgono, non liberano l'uomo dalle sue debolezze, tanto meno poi quando egli si isola, come non può a meno di fare un monaco che vive in un convento, anche se quest'ultimo non rifiuta ogni contatto con la vita.
La clausura monastica é contro la natura. Solo uomini eccezionalmente predisposti per indole alla vita contemplativa possono riuscire a persistervi per tutto il corso di una lunga vita. Forse questo si può dire riguardo a quel Nilo, che visse con un manipolo di eremiti presso Gaeta, ed osò levare con fermezza la voce contro Ottone III ed il suo papa Gregorio V per il duro trattamento fatto all'antipapa.

Ma persino degli spiriti eminenti, ed indubbiamente ripieni di uno zelo altrettanto sincero quanto ardente, come Pier Damiani, Gregorio VII ovvero S. Bernardo, non vi riuscirono, per tacere di altri che, come papa Urbano III, cedettero agli impulsi dell'odio ed al desiderio di vendetta.
In Gregorio VII il dispregio ascetico delle cose terrene si univa ad una indomabile ambizione di dominio, e noi vedemmo che né il suo cuore né le sue mani rimasero monde dalle brutture che affliggono la vita terrena.

Anche peggio si può dire di quell'esercito di monaci che sotto la sua guida mosse in guerra contro l'ordine politico esistente. Dagli scritti del vescovo Bonizo di Sutri, un fervente gregoriano, scritti che per alcuni avvenimenti storici non sono, é vero, una fonte molto attendibile, ma ci riescono preziosi in quanto ci permettono di gettare uno sguardo nella vita di quei tempi, emerge un quadro ripugnante dell'invidia reciproca, dell'ipocrisia e della multiforme miseria morale di questi santi, asceti di carriera.
Lo stesso Bonizo ci dimostra con la sua indole quanto poco giovi la devozione ascetica a preservare l'uomo dalle debolezze proprie della natura umana.
Analoghe impressioni riceviamo leggendo la cronaca dell'abate Ugo di Flavigny, che comincia dall'anno 1090. Da giovane egli aveva accompagnato in Normandia il suo abate, un gregoriano convinto, che si recava colà, incaricato di restaurare nel paese l'autorità del pontefice romano; ma aveva dovuto veder fallire la missione «perché lo stesso papa si lasciò corrompere».

A Roma il denaro aveva ancora una volta trionfato sui principi. Da abate di Flavigny lo scrittore ebbe poi modo di sperimentare quanto poco le azioni dei suoi amici politici, i partigiani del papa, fossero in armonia coi principi che portavano in processione, di modo che egli alla fine, disgustato, si staccò da loro e passò a militare nel partito imperiale.
È impossibile giudicare particolareggiatamente chi nei conflitti tra questi due campi avversi di chierici e monaci avesse la maggior parte di colpa; ma l'impressione complessiva non muta; le loro caratteristiche negative sono innegabili, e per quanto si voglia essere benevoli e riconoscere che il frasario degli scrittori, composto di luoghi comuni, possa aver ingrandito e peggiorato molte cose, pure non si può a meno di arrivare alla conclusione che tra semplici cittadini si vive meglio che non tra santi e persone che pretendono di essere santi.

L'onesto lavoro per i fini della vita terrena che sono più consoni alla sua natura e più proporzionati alle sue forze addestra l'uomo ad essere padrone di sé e lo preserva dal pericolo della presunzione meglio dell'esclusiva contemplazione delle cose eterne e dell'assorbimento della sua attività nel coltivarle.

La stessa chiesa medioevale ha dovuto sperimentare questa verità di fronte al fanatismo di certi gruppi di eretici ch'essa ha fieramente perseguitato, ed anche il protestantesimo ebbe a fare analoghe esperienze di fronte a fanatici ortodossi ed eterodossi che presentano molte somiglianze con i fanatici medioevali.

Le occupazioni della vita ordinaria, la cura assidua degli interessi economici del monastero, e l'insegnamento o la coltivazione di arti e di studi scientifici furono perciò le migliori ausiliarie per mantenere la disciplina nei chiostri. Ma non bastarono a togliere ogni inconveniente. Lo dimostrano già le numerose falsificazioni di documenti in essi perpetrata; e che non si possono scusare dicendo che nel Medioevo non si badava tanto per il sottile a queste cose, giacché secondo il diritto longobardo e franco i falsificatori di documenti erano puniti con il taglio della mano, quando il reato non rivestiva il carattere di tradimento, nel qual caso era comminata la pena di morte.
Se una scusante si vuol cercare alla sconfinata impudenza con cui chierici e monaci hanno accumulato falsi su falsi, si può anzitutto osservare che una parte delle falsificazioni fu operata per sostituire documenti andati perduti in seguito a sottrazioni od incendi, ovvero per procurarsi una prova di diritti non documentati ma realmente spettanti ai conventi e minacciati dalle usurpazioni di potenti vicini; ed in secondo luogo che i laici per lo più non sapevano leggere e scrivere e quindi era grande la tentazione di toglier loro con la penna quanto essi difendevano con la spada.

In realtà peraltro tutto ciò non vale a giustificare il mal fatto. Anche in monasteri famosi per la loro religiosità ed eminenti per l'influenza esercitata sul progresso della cultura, come quello di Reichenau, ed anche in centri principali dell'organizzazione ecclesiastica, come Roma, Reims, Magonza, Treveri, si é falsificato senza limiti e senza riguardi. Questa ondata dislealtà pesa come una grave macchia sulle chiese e sui monasteri del Medio-Evo.
E l'arma della falsificazione fu adoperata, non solo nella lotta contro il potere civile o per abbattere ostacoli che offrivano le leggi civili, ma anche nei conflitti e nelle rivalità fra varie chiese e vari monasteri.

Già la quasi abitudinaria amplificazione delle leggende relative ai santi protettori dei singoli monasteri era in fondo una falsificazione, per quanto più scusabile delle altre. Ogni nuova edizione della leggenda (ed occorreva spesso ricopiarla perché il manoscritto si consumava con la giornaliera lettura che se ne faceva in refettorio) offriva una buona occasione per moltiplicare il numero dei miracoli del proprio santo affinché non apparisse da meno del santo della chiesa vicina o del monastero salito in maggior fama (ovviamente con gli stessi mezzi).

Ma anche in queste frivole rivalità si verificarono fatti poco lodevoli. Il biografo del vescovo Agrizio, che scrisse ai tempi di Gregorio VII, narra:
«L'arcivescovo Bruno di Colonia, fratello di Ottone I, fece rubare il santo chiodo dal reliquiario di S. Elena e lo fece sostituire con uno somigliante. Ma il chiodo, che il custode corrotto dal vescovo cercava di nascondere sul petto, cominciò d'un tratto a sanguinare e coprì di sangue il custode infedele».
Questa assurda storia é tipica per caratterizzare con qual disinvoltura questi costruttori di leggende asserivano le cose più insensate, e nel tempo stesso ci documenta che lo scrittore riteneva capace un vescovo così pio come Bruno di Colonia di rubare delle reliquie.
Né questo é il solo esempio del genere. Il famoso Einhard fece rubare delle reliquie in Roma, e ci racconta come il fedele servitore che per suo incarico compì il furto si preparò all'impresa con preghiere e digiuni per
assicurarsi l'aiuto di Dio, poi penetrò di notte tempo nella chiesa, sollevò la pesante lapide sepolcrale che nascondeva le agognate reliquie e riuscì a fuggire valicando le Alpi con la preda preziosa.

Le menzogne che preti e monaci andavano spacciando sui miracoli delle reliquie furono ripetutamente stigmatizzate dalla stessa chiesa. L'abate Guiberte del monastero di S. Maria a Negent presso Laon, un monaco di eminenti qualità, benché non fosse alieno dal credere ai miracoli e sostenesse egli pure di averne visti fare con l'impiego delle reliquie (era il periodo del trionfo dei gregoriani sull'impero e della prima crociata), assistette a così sfrontate mariuolerie perpetrate da preti e monaci con le reliquie ed i miracoli, che si sentì costretto dalla sua coscienza ad insorgere. Nello scritto «De Sanctis et pignoribus Sanctorum» egli mostrò come bastasse spesso la più piccola occasione perché si cercasse di far credere al miracolo. Così egli stesso vide che, essendo - e chissà sa come - corsa la voce che un anonimo ragazzo da poco morto fosse in odore di santità, i contadi ni dei dintorni cominciarono ad accorrere in massa in pellegrinaggio alla sua tomba ed a portare donativi.

Allora l'abate della chiesa coi suoi monaci fabbricarono dei miracoli compiuti da questo ragazzo per attirare ancora più gente. Furono ingaggiati degli uomini che dovevano fingersi sordi e pazzi o rattrappiti nelle mani e nei piedi e dovevano poi lasciarsi risanare miracolosamente. Fu provveduto a diffondere le notizie di queste guarigioni, mandando in giro con ostentazione le barelle che erano servite a trasportare gli storpi, accompagnate da sfrontati piazzisti incaricati di bandire come al mercato i miracoli.

Di un'altra chiesa lo scrittore narra una analoga gherminella. La chiesa aveva bisogno di restauri, e per procurarsi il denaro necessario fu dato incarico ad un prete di pochi scrupoli di predicare le meraviglie delle reliquie della chiesa e di incitare i contadini a portare il loro obolo per la sua restaurazione. Costui arrivò alla sfrontatezza di mostrare durante la predica a quella povera gente una piccola custodia in cui disse trovarsi un pezzo del pane che Cristo aveva masticato coi suoi propri denti. Se qualcuno non voleva credervi, poteva chieder se era vero all'abate Guiberto che tutti conoscevano come un gran dotto. Guiberto confessa che arrossì di vergogna di fronte a tale richiesta, ma tacque per un riguardo verso le persone che avevano incaricato il prete di predicare.
Alcuni secoli più tardi, alludendo a questo passo di Guiberto, un pio benedettino diede sul XII secolo questo giudizio complessivo: «La cupidigia del denaro (nefanda pecuniarum libido) dominava in quest'epoca ed accecava preti e monaci sino al punto da trascinarli a tentare (con simili trucchi) di rendere più famose le proprie chiese».

Ed il concilio Laterano del 1215 esortò i vescovi a non tollerare «che coloro i quali visitavano le chiese per adorare le reliquie venissero ingannati con miracoli inventati e con falsi documenti, come accadeva in molti luoghi allo scopo di far denaro».
Importa rilevarlo: la riforma della chiesa operata da Gregorio VII e dagli lnnocenzi non eliminò l'inconveniente delle accennate falsificazioni e l'uso di questi trucchi. Anzi le leggende crebbero dinumero e sul mercato delle reliquie fiorirono gli articoli più inverosimili: il latte di Maria, fiori che Maria aveva in mano all'atto dell'annunciazione, denti ed ossa di santi, anche di santi che non erano mai vissuti, ed oggetti assurdi come il coltello con cui gli armigeri avevano stracciato la veste di Cristo, un frammento dell'eclisse egiziana, e dei pretesi residui della circoncisione di Cristo.
Che era stato trovato e ben conservato (come lo poteva essere è un mistero - ma la provvidenza fa questo e altro) il pezzo di prepuzio di Gesù Cristo, toltogli quando - al pari di tutti maschietti ebrei- era stato circonciso. Le discussioni di quegli ecclesiastici in un consesso subito formatosi furono accanite, ma la vinse la corrente che diceva essere una testimonianza inoppugnabile. Sembra che poi questa reliquia si sia moltiplicata e che ben 5 o 6 chiese in giro per l'Europa ne possiedono una. Compresa l'Italia, a Roma dove ne giunse una e fu venerata; precisamente nella chiesa di CALCATA sulla Cassia, alle porte di Roma (vicino all'odierno autodromo di Vallelunga). Lì è rimasta questa reliquia venerata da tutto il paese fino a pochi anni fa (1970) nel giorno appunto della Circoncisione di Gesù Cristo, che come sappiamo cade il giorno 1° Gennaio; e proprio in tale giorno la reliquia veniva mostrata ai fedeli, finchè un bel giorno il parroco della chiesa, comunicò ai propri fedeli che era stata rubata, cosa che molti non credettero e commentarono che essendo diventata quella reliquia un pò imbarazzante (oltre che poco credibile a nostri giorni) era stata messa da parte.

Questo traffico di reliquie assumeva forme sempre più sconvenienti a misura che la disciplina nei conventi diveniva più rilassata, e di solito i monasteri dopo alcune generazioni finivano per cadere nell'indisciplina e nel completo disordine. Ciò avveniva soprattutto nel IX e X secolo perché non esisteva una sorveglianza organizzata sui monasteri. Questi seguivano bensì tutti la regola di S. Benedetto nella forma data ad essa nel IX secolo da Benedetto da Aniane, ma ogni convento si governava da se. È perciò che nel X secolo il chiostro di Cluny nella Borgogna si fece promotore di una riforma che era ispirata ai più alti ideali della vita religiosa e che cercò di assicurare il mantenimento della disciplina nei conventi riunendoli in una congregazione sotto la sorveglianza dell'abate di Cluny. Il sistema servì poi di modello alla formazione di altre congregazioni. Ma il rimedio non giovò a lungo.

Già S. Bernardo ritenne che l'ordine di Cluny rappresentasse un pericolo per la disciplina monastica e cercò di restaurarla fondando l'ordine dei Cistercensi. Sui primi tempi l'ordine diede splendida prova specialmente per il modo come era organizzata la sorveglianza; ma erano appena passate tre o quattro generazioni ed anche quest'ordine era in via di decadenza in seguito alle ricchezze accumulate.

Le speranze dei fedeli si volsero così agli ordini mendicanti, che vennero fondati nei primi decenni del XIII secolo, e che a causa del voto di povertà e del divieto di possedere denaro e beni sembravano dovere essere garantiti contro i pericoli della ricchezza da cui gli altri ordini non avevano saputo difendersi. Con gli ordini mendicanti spunta un nuovo concetto dell'organizzazione monastica; chi voleva entrarvi doveva cioè rinunziare all'appartenenza ad un determinato convento; chi si votava a S. Francesco od a S. Domenico apparteneva all'ordine tutto intero, e quindi poteva essere impiegato dall'ordine in vari paesi e destinato a varie funzioni.

S. Domenico e S. Francesco d'Assisi, i fondatori dei due grandi ordini di frati mendicanti, furono due personalità assai diverse per indole. Erano entrambi di sangue latino, il primo uno spagnolo, il secondo un italiano. S. Domenico fu spinto a fondare il suo ordine dalla constatazione delle vaste proporzioni assunte dall'eresia in Francia e si propose come fine immediato la lotta per la difesa della chiesa.

S. Francesco invece fu spinto da vicende ed inclinazioni personali a perseguire quell'ideale di povertà che aborriva da tutti gli splendori non solo del mondo, ma anche della chiesa cattolica. In lui si nota una tendenza avversa all'organizzazione sociale che richiama alla mente Tolstoi e gli idealisti anarchici dei nostri giorni; ma egli non sconfinò dal campo degli ideali religiosi. Lo circondava l'aureola del santo che trionfa delle tentazioni del mondo, che con la preghiera, la fede e l'amore sconfinato per tutta l'umanità costruisce un ponte tra il cielo e la terra. Egli cominciò la sua carriera con un atto che presenta una somiglianza alquanto sospetta con la leggenda di S. Crispino, e con l'impeto travolgente della sua predicazione e con l'umile amorosa assistenza dei poveri e dei derelitti, e conquistò aisuoi ideali un gran numero di giovani ed anche uomini che avevano fatto già esperienza della vita.

Con l'aiuto dei grandi papi Innocenzo III ed Onorio III, e soprattutto per loro incitamento, S. Francesco formò dei suoi seguaci un ordine, cosa che originariamente non era nelle sue intenzioni. Egli disse d'aver visto nell'estasi un angelo imprimergli le stimate di Cristo, e quando poco dopo morì i suoi seguaci non trovarono più limiti nella loro venerazione.

Appena due anni dopo la sua morte (m. 1226) papa Gregorio XI lo santificò, ed alcune generazioni più tardi il capitolo generale del suo ordine approvò un libro che cercava di dimostrare come S. Francesco fosse stato sotto molti aspetti simile a Cristo ed in alcuni riguardi lo avesse persino superato.
Tutto questo è in armonia col quadro dell'Italia nel XIII secolo che il suo ciclo di eroi, accanto ai tipi dei grandi condottieri come Ezzelino da Romano, degli audaci mercanti, come il doge di Venezia che guidò la crociata del 1203, e dei grandi papi, abbia avuto anche il tipo del santo mendicante.
Il clero ed i vecchi ordini monastici si erano mondanizzati. Le pretese al predominio universale che accampò a quei tempi la chiesa, sotto
Innocenzo III ed Innocenzo IV, non potevano essere mantenute e difese con l'aiuto di simili ausiliari. Perciò la fondazione degli ordini mendicanti sembrò un'àncora di salvezza per la chiesa, e di fatti essi le resero i massimi servigi sia nei riguardi politici, sia nei riguardi della sua vera missione, la cura d'anime e la cultura ecclesiastica, benché anche sotto la forma dell'inquisizione.

I papi li dotarono di estesi poteri ed a loro affluì dapprincipio in massa la più eletta gioventù, specialmente alle università e scuole affini. Ma non era ancor trascorso il XIII secolo, e già contro di loro si vedono levarsi le più aspre accuse ed accumularsi numerose prove che dimostravano come avesse avuto ragione il poeta, che aveva salutato con l'entusiasmo il sorgere di questi ordini, ad esprimere il timore che anch'essi avrebbero probabilmente battuto lo stesso iter tritum, vale a dire seguito quella stessa strada che aveva condotto gli altri ordini monastici al traviamento verso la potenza e la ricchezza, il peccato e la colpa.

Mundus et religio, il clero secolare ed il clero regolare, erano le due classi in cui si accentrava l'esercizio dell'autorità spirituale e il godimento dei privilegi ecclesiastici. Fin da principio tra questi due gruppi, pur legati da vincoli di solidarietà, si produssero in frequenti lotte e rivalità. Precipuamente molti conventi cercarono di sottrarsi all'autorità del vescovo e mettersi alla diretta dipendenza del papa. Ed i papi favorirono volentieri queste tendenze per procurarsi in questi monasteri degli strumenti sicuri per esercitare lontano e direttamente la propria influenza. Così avvenne sin dall'VIII secolo per il monastero di Fulda nell'Assia ed in seguito per molti altri conventi in tutti i paesi. Un passo ulteriore su questa via fu fatto col sottrarre all'autorità dei vescovi gli ordini mendicanti nella loro totalità. Tra questi ordini ed il clero secolare si accese pertanto una lotta i cui inizi risalgono allo stesso XIII secolo, che si rinnovò continuamente e spesso mise in agitazione intere città ed interi paesi, e di cui il famoso conflitto scoppiato verso la metà del secolo tra i dotti domenicani ed i professori dell'Università di Parigi appartenenti al clero secolare non costituisce che un episodio.

E ben più importante fu il perpetuo conflitto provocato dal privilegio concesso ai due ordini di predicare ed esercitare la cura delle anime dappertutto, di seppellire nei propri cimiteri anche gli amministrati delle parrocchie e di seppellire laici rivestiti dell'abito dell'ordine. Con ciò essi sottraevano ai parroci una parte considerevole delle loro rendite e della loro influenza.
In occasione del citato conflitto scoppiato a Parigi papa Innocenzo IV aveva dovuto convenire che i mendicanti, sino allora favoriti col criterio parziale da Roma, si erano resi colpevoli di molte usurpazioni. Ma il suo disfavore non pose affatto fine alla lotta. I mendicanti conservarono i loro privilegi e papa Martino IV li confermò ed ampliò con la bolla Ad fructus uberes, che gettò il clero francese in una fiera agitazione.
I vescovi protestarono che i privilegi dei mendicanti portavano la disorganizzazione nelle loro diocesi e rendevano impossibile di mantenere l'ordine nelle parrocchie. In realtà il motivo principale è che temevano di trovarsi con meno parrocchiani e quindi incassare meno donativi.

Anche ora essi trovarono degli alleati volenterosi nei professori di teologia dell'Università di Parigi e si proposero di prendere energiche deliberazioni quando si adunarono nel concilio nazionale francese del 1290. Ma qui il rappresentante della curia, Benedetto Gaetani, quello che pochi anni dopo salì al papato col nome di Bonifacio VIII, li fulminò in concilio con le sprezzanti parole che “l’unico membro sano dell'organizzazione della chiesa erano gli ordini mendicanti. I vescovi dovevano ubbidire. Roma concedeva i suoi privilegi dopo matura riflessione, Roma non procedeva alla leggera ma con i piedi di piombo (pedes non plumeos sed plumbeos)”.

Il concilio si lasciò intimidire. In sostanza però i vescovi, se non potevano negare che l'organismo della chiesa era afflitto dai mali da capo a piede, avevano ragione a ritenere che questa macchia era comune alla stessa curia ed anche agli ordini mendicanti. Gli ordini mendicanti non difettarono anche nella seconda metà del XIII secolo e nel XIV secolo di uomini eminenti, come i domenicani Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, ovvero i francescani Bonaventura e Ruggiero Bacone; ma non é meno certo che essi non arrecarono quella guarigione dei mali della Chiesa che dà loro si aspettava. Ché anzi essi medesimi rimasero contagiati dagli stessi mali e sotto molti aspetti li aggravarono. Dato ciò, é naturale che i vescovi non potessero tollerare che costoro con i loro privilegi sconvolgessero l'organizzazione ecclesiastica, era naturale che non volessero rinunciare alla sorveglianza sui membri di questi ordini che esercitavano tanta influenza nelle loro diocesi con la predicazione e col confessionale ed in molte occasioni, non esclusi i conflitti tra vescovi ed autorità civile o tra vescovi e città, prendevano le parti contrarie ai vescovi.

Gli ordini mendicanti misero sotto molti riguardi in contatto il clero con il ceto laico e contribuirono perciò notevolmente ad affrettare quell'evoluzione, già prodottasi in seguito al progresso economico e sopra tutto intellettuale del ceto laico, che doveva attenuare, se non sopprimere, l'antitesi tra clero e laici. Questa antitesi aveva le sue origini nella posizione dominante, in quella specie di autorità tutoria, che il clero aveva acquistato sui laici principalmente in materia ecclesiastica e che gli aveva fruttato un complesso di privilegi in fatto di giurisdizione, di imposte e di obblighi personali ed in molti altri riguardi della vita pubblica. Questa posizione privilegiata dei clero, in grazia dei dogmi della chiesa e del metodo dominante di giustificare simili cose con arbitrarie interpretazioni di passi della bibbia e con semplici analogie, era divenuta poi così salda che era ben difficile scuoterla. I conflitti tra i papi ed i vescovi che difendevano la loro indipendenza, lo spirito del diritto romano e l'evoluzione sociale avevano bensì fatto qua e là qualche breccia nella posizione del clero; ma sotto questo aspetto ebbe una particolare importanza il dissidio tra il clero secolare e gli ordini mendicanti. Questi ordini si videro guardati dal popolo come i veri rappresentanti della vita religiosa e si posero perciò sotto vari riguardi in più intimo contatto col popolo.

Soprattutto (a cominciare dal 1221) essi aggravarono al loro ordine in forma meno vincolata sotto il nome di terziari e terziarie numerose persone dei due sessi che desideravano partecipare ai benefici inerenti alla professione ecclesiastica pur rimanendo di condizione laica. Queste schiere di semi-monaci e semi-monache crearono un visibile trait-d’union tra clero e laicato. Anche una quantità di commercianti presero non di rado nel XIII secolo gli ordini minori, perché, dato che chierici e monaci pure loro esercitavano gli stessi commerci, essi non potevano sperare utili dalla loro attività se non si procuravano le stesse esenzioni da dazi ed imposte di cui godevano i loro concorrenti del ceto ecclesiastico.

Gli ordini minori non impedivano loro di continuare nella vita laica e semplicemente offrivano ad essi il modo di fruire di parecchi privilegi del clero. Al processo di parificazione tra clero e laicato contribuì pure l'abitudine invalsa per la quale molti membri di corporazioni ecclesiastiche non prendevano che gli ordini minori ed anche nessun genere di ordini, e la consuetudine di conferire cariche ecclesiastiche anche a ragazzi che non potevano essere in alcun modo ordinati. Ma più che altro agi nello stesso senso la maggior diffusione che l'istruzione andò prendendo tra i laici nel XII e XIII secolo e principalmente la formazione di una vasta classe di dotti comprendente laici ed ecclesiastici.
Sino al XII secolo il clero era stato press'a poco l'unico a saper leggere e scrivere, a conoscere il latino ed a coltivare le scienze teologiche; questo gli aveva assicurata una grande preponderanza sul ceto laico. Nei secoli XII e XIII invece un numero sempre maggiore di laici, favoriti dal fiorire delle Università, ebbe modo di conoscere e trattare con indipendenza di giudizio i metodi ed i risultati delle scienze teologiche e filosofiche, il cui esclusivo possesso aveva circondato il clero di tanto prestigio.

Nelle Università inoltre i dottori di teologia, per lo più eminenti rappresentanti del clero, non costituivano che un gruppo di più vaste corporazioni comprendenti chierici e laici. Tutto ciò peraltro non valse a colmare pienamente il vuoto che separava le due classi, anzi la maggior potenza acquistata dai preti sotto gli lnnocenzi tornò ad acuire le differenze.
Possiamo dire che nel XIII secolo fu semplicemente posta la prima base della futura parificazione; ma l'antitesi tra clero e laici rimase tuttavia una delle caratteristiche più spiccate dell'organizzazione sociale del tempo.

Sarebbe però erroneo credere che i privilegi spettanti agli ecclesiastici, anche di infima origine, a confronto di qualsiasi laico, sia pure il più nobile, abbiano prodotto in seno al clero una parificazione che non teneva conto delle differenze di classe sociale. Certo, uomini di bassa origine pervennero talora alle più alte dignità ecclesiastiche; ma furono casi eccezionali. In complesso invece la Chiesa si è adattata alle esigenze dell'organizzazione sociale medioevale con le sue distinzioni di classi: gli uffici ecclesiastici più elevati e più riccamente dotati non vennero mai conferiti, salvo eccezioni relativamente scarse, che a persone provenienti dalle classi nobili, e molti conventi e capitoli erano riservati per statuto o per consuetudine solo a determinate sfere della nobiltà.

Molti chiostri vennero sin dall'inizio fondati ad esclusivo uso di una famiglia, cioè con lo scopo di dare un idoneo collocamento ed assicurare una rendita sufficiente ai maschi della famiglia che non potevano conseguire un feudo conveniente ed alle donne che non trovavano un conveniente matrimonio. I chiostri insomma facevano l'ufficio delle moderne assicurazioni ed istituti analoghi e servivano quindi a tutelare il mantenimento della vecchia organizzazione di classe.

Il movimento delle crociate ed i bisogni nuovi da esse generati provocarono il sorgere di uno speciale gruppo di ordini monastici, gli ordini cavallereschi ecclesiastici, composti di cavalieri che continuarono a cingere la spada benché avessero fatto voti monastici, e sotto molti riguardi conducessero od almeno fossero obbligati a condurre vita monastica.
L'ordine più antico é quello dei Giovanniti che sembra uscito da una organizzazione di frati serventi dedicatisi alla cura dei pellegrini ammalati degenti nell'ospedale di S. Giovanni. All'inizio del XII secolo nella loro regola venne incluso anche l'obbligo di combattere contro gli infedeli.
Essi acquistarono rapidamente grandi privilegi e ricchezze; nel 1187 dovettero abbandonare Gerusalemme dinanzi alle armi di Saladino, ma si mantennero sino al 1291 a Tolemaide in Siria. Dal 1291 al 1309 difesero Cipro, poi Rodi e dal 1522 in poi Malta.

A queste varie sedi successive é dovuta la varietà di denominazioni che il loro ordine ebbe. A Gerusalemme essi indubbiamente resero notevoli servigi a favore degli infermi ed a vantaggio della chiesa, ma dovettero sostenere pure molte lotte con i vescovi locali ed anche con i litigiosi re. Orgogliosi delle loro ricchezze, del numero dei loro guerrieri e dei loro castelli, delle loro relazioni e dei loro privilegi, questi cavalieri assunsero l'attitudine di una potenza autonoma in seno alla vacillante monarchia gerosolimitana e di fronte al pretenzioso ma debole episcopato locale, col quale vennero a conflitto per avere arbitrariamente trasformato il limitato privilegio loro concesso di celebrare messa anche in tempo di interdetto nel diritto generale di non tener conto degli interdetti emanati dai vescovi.
Questo conflitto ci rivela uno degli espedienti con cui il mondo finiva per sottrarsi alle vessazioni inerenti a questo genere di pene ecclesiastiche, che erano divenute intollerabili in seguito al continuo abuso di tali pene. Da che parte poi stesse la ragione o il torto nelle controversie tra l'ordine degli Ospitalieri ed i patriarchi ed i re di Gerusalemme è impossibile giudicare. Le due parti intanto vi portavano la stessa misura di sentimento d'orgoglio, e la situazione era spesso così complicata che anche un uomo di buona volontà poteva trovarsi costretto ad elevare delle pretese che ad altri sembravano ingiuste.
L'ordine del resto diede prova di abnegazione; esso seppe raccogliere ed organizzare una considerevole massa di forze per la lotta contro l'islamismo.

Lo stesso deve dirsi dei Templari. L'ordine dei Templari fu fondato nel 1119 allo scopo di proteggere coloro che si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme ed in origine ebbe la sua sede nel palazzo reale della città che doveva trovarsi dove una volta sorgeva il tempio di Salomone. L'ordine nel corso dei secoli XII e XIII salì a grande potenza e ricchezza e perciò suscitò ben presto l'invidia dei grandi, così ecclesiastici come laici. Ci si dice che verso la fine del XIII secolo avesse raggiunto il numero di 20.000 cavalieri, fra i quali non pochi uscivano da nobili famiglie e godevano di influentissime relazioni.

Nella lotta contro papa Bonifacio il re Filippo il Bello sollecitò ed ottenne l'appoggio dei Templari; e così pure numerosi altri potenti e semplici cittadini invocarono la protezione dell'ordine, pagandola a prezzo di donativi o di impegni contratti verso di esso. I Templari avevano estesi possedimenti e largo seguito principalmente in Francia; qui l'ordine rappresentava quasi uno Stato nello Stato, le immunità giurisdizionali e gli altri privilegi ed esenzioni dei suoi possessi turbavano e sconnettevano l'organizzazione ecclesiastica ed impacciavano l'attività amministrativa dei funzionari regi.

Re Filippo, che mirava a risollevare in Francia l'autorità della corona, si trovò costretto a preoccuparsi di questo stato di cose, per il quale si sentiva ostacolato nella sua opera dalla politica dell'ordine necessariamente ispirata a criteri indipendenti (giacché l'ordine non era una istituzione francese). E siccome aveva visto che per respingere vittoriosamente le pretese di papa Bonifazio aveva trovato sufficiente sostegno nella nobiltà, nelle città ed in una notevole porzione del clero, così osò ora iniziare quella lotta contro l'ordine che gli deve essere stata prospettata quale necessaria ed imprescindibile da molti dei suoi consiglieri.

Papa Clemente V era in quel periodo in piena balia del re francese e fu costretto a servirgli da strumento per la distruzione dei Templari. Già in materia di politica estera della Francia papa Clemente aveva rappresentato questa parte miserevole, obbligandosi a scomunicare il conte di Fiandra qualora avesse violato il trattato concluso col re Filippo IV ed a non proscioglierlo dall'anatema se non su richiesta del re di Francia.
Anche più servile egli si dimostrò nella questione dei Templari. L'ordine annoverava migliaia di uomini per la giovane età gagliardi e propensi alle avventure cavalleresche ed ai godimenti, per lo più uscenti dalle classi sociali elevate e quindi abituati alla vita propria di queste classi; tutta gente che per il ristagno della lotta contro i maomettani in Oriente era in sostanza disoccupata e viveva in Francia godendosi le ricchezze dell'Ordine.

Nessuna meraviglia perciò che molti di costoro, mettendo un po' nel dimenticatoio la regola dell'ordine, sperperassero in eccessi quell'esuberante energia che non trovava impiego altrove. Ciò offrì il pretesto ad accuse da parte del re, che il papa compiacentemente assecondò, benché entrambi un momento prima nei loro rapporti con l'ordine avessero dimostrato di considerarlo come un potente sostegno della chiesa.

Non è il caso di riferire qui i particolari della terribile tragedia che ne seguì; basterà accennare che nelle fiamme che incenerirono il generale dei Templari, Giacomo di Molay, perì anche in gran parte il papato medioevale. Questi roghi liberarono dai residui del medioevo il terreno su cui sorse poi l'edificio della monarchia della Francia moderna.

A potenza analoga a quella dei due ordini sopra ricordati salì pure l'Ordine Teutonico; e ciò pochi decenni dopo che esso era stato fondato durante la crociata del 1191. Gli imperatori Enrico VI e Federico Il lo dotarono di copiosi privilegi e possedimenti, ed in occasione della conquista e conversione della Prussia quest'ordine contribuì alla colonizzazione tanto quanto pochi re e principi seppero fare.
I Gran Maestri dei tre grandi ordini cavallereschi, i Templari, i Giovanniti ed i cavalieri dell'Ordine Teutonico, ebbero nel XIII secolo una parte importante nei negoziati tra imperatori e papi, intervenendovi spesso come avrebbero fatto dei principi di potenze indipendenti.
Ciò che poi soprattutto va rilevato é che anche questi ordini, data la loro vita semi-monastica e semi-cavalleresca, contribuirono a quel processo che era destinato a cancellare l'antitesi tra clero e laicato e prepararono la via alla più liberale organizzazione della società moderna.

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PAPATO E CHIESA FINO A BONIFACIO VIII

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79. PAPATO E CHIESA FINO A BONIFACIO VIII

Con la morte di Bonifacio sembrò finita la teocrazia e il Papato pareva che avesse esaurite tutte le sue energie...

Verso la metà del XIII secolo Il papato in seguito al suo trionfo sugli Hohenstaufen e sull'Impero parve aver concentrato nelle sue mani tutta la somma del poteri terreni. E la vittoria dell'autorità spirituale sul potere civile fece salire il papato anche in seno alla chiesa ad un grado di potenza quasi illimitata.

Gli inizi di questo processo di ascensione del papato risalgono all'epoca di Gregorio VII (1073 1085); ma il principio dell'assoluta autorità del pontefice romano nell'interno della chiesa fu posto e sostenuto nettamente soltanto da Innocenzo III (1198 1216), ed un secolo dopo vediamo quasi raggiunto questo scopo dell'assoluta onnipotenza spirituale del papato. Quest'ultimo ormai si rivela come l'unica fonte che conferisce e commisura ogni potere spirituale; da esso solo le sacre facoltà scaturiscono e si diramano scendendo sino agli infimi organi della gerarchia ecclesiastica.

La via tenuta dal papato per arrivare a tale meta fu In complesso quella di muovere dalla supremazia per così dire teoretica, riconosciutagli senza contestazioni nel vari rami dell'amministrazione ecclesiastica, per renderla reale sempre In maggior misura ed attuarla effettivamente sin nel più minuti particolari. Così in materia di giurisdizione ecclesiastica i papi non solo estesero sempre più il loro diritto di decidere in grado di appello facendo in modo che un sempre maggior numero di contestazioni fosse portato dinanzi al loro foro in seconda istanza, ma andarono più in là e riuscirono a far trionfare la massima che ogni lite potesse essere portata anche in prima istanza direttamente a Roma, cosicchè di fatto tutta la giurisdizione ecclesiastica si concentrò nella curia, la quale fu in grado quando le parve opportuno di eludere e paralizzare la giurisdizione ordinaria dei vescovi.

Un altro esempio si ha nella storia del potere legislativo ecclesiastico. Esso in origine non spettava ai papi, ma ai concili che impersonavano la rappresentanza di tutta la chiesa; tuttavia assai per tempo i papi si arrogarono la facoltà di esentare mediante dispense, per lo meno in casi singoli, dall'osservanza delle leggi e dei precetti vigenti, mettendosi in questo modo al disopra della legge.

D'altra parte con la fine della lotta per le investiture i concili ecumenici divennero più rari; in un periodo di 172 anni, vale a dire dal 1139 al 1311, non si ebbero che cinque grandi concili, i quali inoltre, più che limitare i poteri dei papi, li consolidarono ed ampliarono. E così il potere legislativo passò dai concili ai papi.
A cominciare da Alessandro III (1159-1181), il contemporaneo ed avversario di Federico Barbarossa, i migliori papi si presentarono più giuristi che teologi, e le «decretali» dei pontefici sostituiscono i canoni dei concili nel dettar leggi alla chiesa. Da queste decretali poi uscì quella grande compilazione che va sotto il nome di Corpus iuris canonici, che fece della chiesa un vero istituto ordinato giuridicamente e venne a porsi accanto al Codex lustinianus del diritto civile romano.

Fu papa Gregorio IX (1127-1241) che nel 1234 fece completare il Decretum, sorto come compilazione privata, e, diviso in cinque libri, lo promulgò come un codice avente valore formale di legge per la chiesa; e ciò fece di propria autorità senza chiedere il consenso di altre autorità ecclesiastiche. Se si pensa che le decretali erano state emanate dai papi e che d'altro canto questi stessi papi, anzi essi soli, potevano dispensare dall'osservanza delle prescrizioni ecclesiastiche, si ha il risultato che in realtà i papi si erano conquistato il più completo arbitrio nel governo della chiesa.
Si aggiunga che essi finirono per avocare a sé l'imposizione dei tributi alla chiesa ed il conferimento degli uffici ecclesiastici. In origine e sino al XIII secolo questa tassazione fu di competenza dei concili; ma in seguito l'ingerenza papale invase anche questo campo.

All’inizio Roma avanzò la sua pretesa sotto la veste di preghiera; ma ben presto la curia sotto una quantità di pretesti prese il costume di sfruttare la chiesa con l'imposizione di «sussidi» d'ogni genere, di centesime, ventesime, decime, ecc. delle entrate ecclesiastiche.
Non diversamente avvenne in ordine al conferimento degli uffici ecclesiastici. Questo era anzi il punto più importante per la supremazia dei papi sulla chiesa. Avere infatti il diritto di nominare le cariche ecclesiastiche, significava avere in pugno la chiesa, avere in proprie mani le immense sue ricchezze sparse in tutta la cristianità.
I papi naturalmente lo compresero benissimo, ed impegnarono tutto il peso della loro autorità per indurre anche in questa materia un mutamento di sistema a loro profitto. In origine alla curia romana spettava scarsa ingerenza nel conferimento delle cariche ecclesiastiche; gli uffici inferiori erano conferiti dai vescovi ed alle prelature (dopo l'eliminazione più o meno completa dell'ingerenza del potere civile in seguito alla lotta per le investiture) provvedevano per elezione i capitoli delle cattedrali. Anzi non si arrivò mai a riconoscere formalmente ai papi in modo generale, od anche semplicemente in determinati casi, la facoltà di, nominare i vescovi.
Ciò malgrado fin dal XII secolo i papi sostennero in principio che ad essi spettasse il diritto di conferire tutti gli uffici ecclesiastici, di modo che parvero fare una concessione con l'accontentarsi di «riservarsi» in alcuni casi, non fissati peraltro ma lasciati al loro arbitrio, di decidere in merito a tali uffici.

Ed anche qui all'inizio lo fecero in forma di preghiera : essi «raccomandarono» agli ordinari il conferimento di un certo beneficio ad una determinata persona; ma ben presto (già sulla fine del XII secolo) furono istituiti degli «esecutori» con l'incarico di provvedere alla effettiva realizzazione di queste raccomandazioni papali e vennero comminate pene per il caso che gli ordinari non vi ottemperassero ; la preghiera si era sostanzialmente trasformata in ordine.
Il papa non si limitò poi a dare questi ordini nell'ipotesi di vacanza di benefici, ma cominciò ad emanare sempre in maggior numero le cosidette «expectantiae», con cui concedevano in antecedenza dei benefici nell'aspettativa che si rendessero vacanti; queste gli offrirono il mezzo di ricompensare i suoi cortigiani e favoriti e di disseminare partigiani devoti nel clero dei vari paesi.
E finalmente alle accennate due forme di ingerenza si aggiunsero in seguito le provisiones, provviste di benefici vacanti fatte direttamente dai papi; forma nella quale venivano conferiti persino dei vescovadi per quanto da principio solo in determinate eventualità, come se ad es. l'elezione era contestata o non era avvenuta con la rigorosa osservanza dei precetti canonici: quest'ultima condizione per altro era già molto elastica.
Un ulteriore ed importantissimo passo verso lo scopo agognato fece papa Clemente IV (1265-1268) nel 1265 dichiarando di esclusiva competenza del papato il conferimento di quei benefici «che si rendessero vacanti presso
la curia», vale a dire se i titolari morivano mentre si trovavano permanentemente od anche soltanto casualmente o transitoriamente presso la curia; in altri termini il papato si assicurava la libera disposizione dei benefici di tutto il personale di curia, di regola riccamente dotato, dal cardinale all'ultimo funzionario, e di tutta la numerosa classe degli ecclesiastici che l'adempimento di un pio dovere, o il bisogno di chiedere qualcosa, o sopra tutto una lite faceva affluire a Roma.

Per conseguenza, allo stato delle cose sul finire del XIII secolo, il papa può disporre quasi illimitatamente dei redditi di tutta la chiesa e distribuisce a suo beneplacito le cariche ed i benefici ecclesiastici; i prelati sono suoi rappresentanti, suoi semplici funzionari.

Verso la stessa epoca si accentuò sempre più la separazione di classe del clero di fronte al ceto laico. Fu soltanto allora che il numero dei sacramenti si fissò definitivamente a sette; essi accompagnavano la vita di tutti gli uomini dalla culla alla tomba; ma uno speciale sacramento, quello della consacrazione, distinse il clero dai laici e lo innalzò al disopra di tutto il resto dell'umanità come un ordine che serviva da intermediario tra gli uomini e la divinità.

Contemporaneamente fu creato il sacramento della messa, concepito come un giornaliero sacrificio, una offerta del corpo di Cristo da parte del sacerdote; la dottrina mistica della transustanziazione, a senso della quale il sacerdote per così dire miracolosamente restituisce il corpo di Cristo e
lo offre in sacrificio a Dio, era già stata fondata nell'XI secolo sotto Gregorio VII; nel 1215 poi il quarto concilio Laterano la accolse tra suoi articoli di fede e dimostrò così di considerarla un dogma. Circa un secolo dopo venne creata la festa solenne del corpus domini (1311).

Ma nel frattempo anche le condizioni della società occidentale si erano trasformate in modo da rendersi ulteriormente incompatibili col predominio dell'elemento ecclesiastico. L'egemonia ecclesiastica era stata por così dire una necessità storica nei tempi antecedenti in cui si era trattato di guadagnare al cristianesimo gli ancor barbari fattori della futura storia dell'Occidente europeo e di educarli e prepararli alla missione di civiltà cui erano chiamati.

Ma quando quest'opera fu giunta al suo termine e cominciò a formarsi in seno a ciascuno dei popoli una coscienza nazionale, l'indirizzo universale impersonato dalla chiesa non poté a meno di essere sopraffatto dalle correnti particolariste. Ad affrettare questo processo contribuirono le crociate.
Esse emanciparono i popoli dell'Occidente dalle anguste forme di vita economico-sociale sin allora dominanti; nuovi elementi di cultura affluirono in Occidente in seguito alle relazioni ed ai contatti con l'Oriente; l'orizzonte delle idee si allargò grandemente, tutta la vita divenne più varia e complicata; una grande rivoluzione economica dovuta all'introduzione dell'economia monetaria fece salire a ricchezza e potenza le città e la borghesia, il vero e proprio elemento progressivo degli ultimi secoli del medio-evo, con l'aiuto del quale l'impero si sottrasse a poco a poco alla tutela in cui lo teneva la chiesa.

E già ora potevano dirsi poste le basi della formazione delle diverse nazioni dell'occidente europeo; le lingue nazionali cominciarono a scalzare il latino, l'idioma universale della chiesa, a penetrare in tutti i vari campi dell'attività intellettuale; sorsero Stati nazionali aventi ciascuno esigenze e fini particolari propri, con i quali era incompatibile un potere che, estraneo ai bisogni ed alle aspirazioni della vita politica nazionale, volesse esercitare dei diritti di sorveglianza e di ingerenza.

In questo elemento nazionale infatti il papato, che aveva avuto la forza di trionfare sugli imperatori di casa Hohenstaufen, trovò il suo domatore; e prima d'ogni altro nel sentimento nazionale francese. Gli stessi papi avevano contribuito ad accrescere la potenza della Francia per servirsene a controbilanciare la potenza dell'impero; a tale scopo l'avevano sempre favorita come avevano cercato il suo appoggio in momenti critici.

La prima conseguenza di quest'indirizzo fu intanto che la curia si trovò aperta all'influenza francese e la politica romana divenne assai più francofila di quanto convenisse agli interessi del papato.
Questo nuovo orientamento politico della curia romana comincia con l'elezione di Urbano IV (1261-1264), un francese.
Mentre sotto il suo predecessore, Alessandro IV (1254-1261), aveva potuto sembrare non del tutto escluso che la Santa Sede riconoscesse Manfredi, che in opposizione alla linea tedesca della sua famiglia si era proclamato re di Napoli e di Sicilia, Urbano IV invece non ebbe altro pensiero che di combattere e sterminare gli Hohenstaufen.
Egli perciò dichiarò decaduto Manfredi dalla corona e la offrì ad un principe francese, il conte di Provenza Carlo d'Angiò, il quale, dietro invito del papa sbarcò in Italia alla testa di uno scelto esercito di cavalieri francesi, sconfisse ed uccise nel 1266 Manfredi in una sanguinosa battaglia, e due anni dopo mandò al supplizio Corradino, che era venuto a riconquistare l'eredità paterna; la testa del legittimo erede cadde sotto la scure dell'usurpatore a Napoli.

Insieme con Carlo d'Angiò trionfò il papa, non Urbano IV che era morto nel 1265, ma il suo successore Clemente IV (1265-1268), anch'egli un francese; questa seconda elezione di un francese dimostra quanta preponderanza avesse già acquistato l'elemento francese nel collegio dei cardinali dopo che Urbano IV lo aveva arricchito di propri connazionali elevando alla porpora costoro a preferenza d'ogni altro.
Papa Clemente dopo questa decisiva vittoria conferì a Carlo d'Angiò la carica di senatore della città di Roma, vale a dire pose sotto il suo protettorato la capitale della cristianità, e lo investì dei poteri di vicario imperiale in Toscana.

Il principe francese, insieme col dominio sulla bassa Italia, acquistò così anche una forte posizione nell'Italia centrale, senza contare che dalla Provenza aveva già tentato di metter piede nell'Alta Italia. E dietro le spalle di lui, fratello di S. Luigi, vigilava la potenza della monarchia francese. Data questa condizione di cose non può destare meraviglia che la curia abbia cominciato a temere di vedersi ridotta allo stato di un mero strumento impotente della volontà del suo alleato, e che nel suo seno si sia prodotto un movimento di reazione, il quale alla morte di Clemente IV (1268) impedì che fosse eletto per la terza volta un francese, riuscendovi peraltro soltanto dopo tre anni di conclave.

Il papa finalmente eletto nella persona di Tebaldo Visconti di Piacenza, che assunse il nome dei Gregorio X (1271-76), ed il suo successore Nicola III, un romano dell'antica casata degli Orsini (1277-80), si impegnarono non senza buon esito di arginare e restringere l'influenza francese nella penisola. Papa Gregorio infatti contribuì considerevolmente a frustrare le ambizioni francesi alla corona italiana e con Nicola li (1277-1280) la politica curiale riacquista l'impronta della grandezza passata; egli seppe strappare di mano all'angioino così la carica di senatore come il vicariato di Toscana. Ed ambedue questi papi curarono pure il consolidamento e l'ampliamento dello Stato della Chiesa. Ma alla morte di Nicola li in conclave la marea portò nuovamente a galla un francese, anzi addirittura l'ex-cappellano di re Carlo, che in omaggio al santo vescovo di Tours, il protettore della Francia, prese il nome di Martino IV (1281-85) e non ebbe più limiti nella sua devozione all'angioino. Quest'ultimo a quel punto si sentì così sicuro in Italia che si preparò con grande zelo per mettere in esecuzione vecchi progetti contro Bisanzio.

Egli si proponeva cioè di restaurare l'impero latino in Oriente ed il papa compiacente si affrettò ad appoggiare la sua impresa fulminando l'anatema contro l'imperatore d'Oriente.
Ma a tal punto, all'apice della sua potenza, il carnefice di Corradino fu colto da un turbine improvviso che troncò tutti I suoi progetti.

In Sicilia scoppiò una formidabile insurrezione; la popolazione dell'isola, stanca dell'oppressivo governo di questo padrone impostole con la forza, si sollevò e rivendicò a sé il diritto di decidere delle proprie sorti; il primo esempio nel medio-evo di un popolo che insorge contro pretese dinastiche ed accordi diplomatici intessuti dietro le sue spalle!
Nei «Vespri Siciliani», la cui prima scintilla parti da Palermo il 30 marzo 1282, trovarono la morte tutti i francesi che erano nell'isola; e il loro dominio in Sicilia fu finito per sempre. Dalle mani del popolo vittorioso ricevette la corona di Sicilia don Pedro, re d'Aragona, il genero di Manfredi.

Va da sé che gli Anjou non si acquietarono al fatto compiuto; anzi per venti anni impegnarono tutte le loro forze per prendersi vendetta dell'affronto e ridurre nuovamente sotto il loro giogo la bella isola. Ma tutto fu vano, ed alla fine dovettero accontentarsi di Napoli, lasciando ai discendenti dell'aragonese la Sicilia costituita in regno a parte col nome di regno di Trinacria.

I papi, che vantavano l'alta signoria feudale su Napoli come sulla Sicilia, parteggiarono fedelmente per gli angioini nella lotta per la riconquista della Sicilia. D'altra parte il fatto che i loro potenti protettori rimasero, impegnati in Sicilia, costituì una diversione che procurò a loro una maggiore libertà d'azione e li preservò dal cadere in completa schiavitù di costoro.
Se non che la riacquistata indipendenza gettò la curia in braccio alla stessa anarchia che infuriava in tutta l'Italia e ridusse il papato a zimbello delle fazioni che si dilaniavano in Roma, nel patrimonio di S. Pietro, e nello stesso collegio cardinalizio.

I papi, compreso Nicola IV (1288-92), il primo francescano assurto alla tiara, non riuscirono a dominare questa situazione e ben presto si videro spogliati d'ogni autorità in Roma; solo di rado e transitoriamente i papi in quest'epoca dimorarono nella città, e di regola invece scelsero a residenza una località fortificata del territorio di S. Pietro a loro sicuramente devota. La morte di Nicola IV fu seguita ancora da una lunga sedisvacanza, perché i cardinali non poterono accordarsi su una persona di valore capace di reggere il timone della chiesa in tempi così tanto difficili, sedisvacanza che finì con la più strana e bizzarra elezione che conosca la storia deI papato.

Nel luglio del 1294 i voti dei cardinali si concentrarono cioè sulla persona di un eremita, Pietro di Monte Murrone negli Abruzzi. Benché sorpreso quanto mai di questo fatto ben lontano da ogni suo pensiero, l'eremita nella sua semplicità accettò la tiaria, ma ben presto dovette convincersi della propria completa incapacità di portare la corona di Gregorio VII e di Innocenzo li. E quindi Pietro l'eremita - o Celestino V, come egli volle chiamarsi - rinunziò alla tiara dopo cinque soli mesi di pontificato, unico esempio nella storia dei papi d'una volontaria abdicazione; e dopo ciò per effetto di una comprensibile reazione salì al soglio la personalità sotto ogni riguardo più eminente tra i cardinali, Benedetto Gaetani, d'antica famiglia romana, uomo praticissimo degli affari e della politica, dotato di talento non comune e di vasto sapere, ma pretenzioso e dispotico, uso a perseguire i suoi fini inesorabilmente, a costo anche di calpestare i diritti e gli interessi degli altri.

Bonifazio VIII, come si chiamò il nuovo papa (1294-1303), apparteneva da cardinale al partito guelfo-angioino; e per la sua elezione poteva contare sulla protezione di re Carlo Il di Napoli. Da papa riuscì a schiacciare la fazione che gli era avversa nello Stato della chiesa e nel collegio dei cardinali, ed a sbaragliare i suoi capi, i Colonna, che avevano goduto il favore e l'appoggio di Nicola IV; egli distrusse i loro castelli della campagna romana, confiscò i loro vasti possedimenti e li donò ai suoi nipoti, i Gaetani; egli fu il fondatore della potenza di questa famiglia che ancor oggi perdura.

Ma Bonifacio mirò a raggiungere ben più alti fini. Egli non solo volle restaurare l'assoluta autorità della Santa Sede in tutta Italia, ma sognò pure la piena realizzazione di quell'ideale di supremazia universale del papato, concepito da Gregorio VII ed Innocenzo li, e che ora gli parve più attuabile per la caduta dell'impero e per la posizione di quasi illimitato dispotismo raggiunta dal papato in seno alla chiesa; sognò di costringere ogni creatura umana a riconoscere la superiorità del potere spirituale del vicario di Cristo.

Ma egli fece i calcoli senza la Francia che, già alla testa delle nazioni europee, e già abituata a non vedere nel papato che un docile strumento della sua politica, attraversò la strada alle nuove velleità della curia e le insegnò che era irreparabilmente passato il tempo di mettere in campo così esagerate pretese.

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INIZIO DELL'EGEMONIA FRANCESE

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Dalla disorganizzazione e dall'anarchia la Francia sotto la dinastia dei Capetingi (987-1328) giunse gradatamente e laboriosamente a conquistarsi ordine all'interno ed influenza notevole all'estero. La corona, che si trasmise sempre regolarmente di padre in figlio, acquistò col tempo prestigio sempre più grande. Il re che all'inizio non poteva vantare se non quegli scarsi poteri che gli derivavano dall'alta signoria feudale, che era semplicemente primus inter pares, riuscì ad imporsi a poco a poco ed in misura sempre maggiore ai grandi vassalli, soprattutto da quando Filippo Il Augusto aumentò la potenza della corona strappando ai Plantageneti le regioni del nord-ovest della Francia ed aggregandole ai dominii regi.

Questi poi si ingrossarono ancora per la devoluzione di altri grandi feudi, ovvero la corona, come per la contea di Tolosa, acquistò in antecedenza il diritto di aspettativa alla successione; i rimanenti vassalli furono ripetutamente umiliati e sempre più ridotti all'obbedienza verso il re, che allo scopo si appoggiò non di rado sulle classi inferiori del popolo, e specialmente sulla borghesia che era in via di poderoso sviluppo e di cui promosse e favorì l'autonomia comunale. A questo modo furono create gradatamente le basi di uno Stato ordinato, sorsero gli elementi di una nazione attorno ad un unico centro, la monarchia.

Dal 1226 al 1270 sedé sul trono francese Luigi IX, detto il Santo, un monarca che fece della religiosità e della giustizia i due criteri fondamentali della sua politica. Alcune generazioni prima un tipo di re come S. Luigi sarebbe stato inconcepibile a capo di una nazione occidentale; la sua comparsa attesta il progresso morale compiuto dalla società occidentale superando l'era della faida selvaggia caratteristica dei secoli antecedenti.

Già i contemporanei ammirarono e circondarono di venerazione questo re la cui illibata personalità sembrò nobilitare la corona che portava riflettendosi sulla stessa nazione che governava. Tuttavia il fondo eminentemente religioso del suo carattere non disgiunto persino da qualche tendenza ascetica, non impedì a Luigi IX di salvaguardare i diritti della corona dei quali fu geloso custode, né lo trascinò a pericolose debolezze verso la chiesa e verso l'elemento ecclesiastico, come non gli impedì di mostrarsi sui campi di battaglia valente cavaliere pur dirigendo le sue maggiori imprese guerresche a difendere la causa dei cristiani in oriente.
Due volte egli prese la croce, con esito peraltro nell'uno e nell'altro caso infelice.

Una fonte di continui attriti e di perenni complicazioni era per la corona francese la politica dei suoi più potenti vassalli, i Plantageneti, i quali, saliti (dal 1154) al trono d'Inghilterra, ne approfittarono per creare difficoltà alla monarchia francese e sostenere di nascosto i suoi nemici. E infatti, anche sotto Luigi IX avvenne una delle tante sollevazioni generali dei vassalli, dietro le cui spalle stava re Enrico li d'Inghilterra.
Ma Luigi IX riuscì ad averne ragione e si valse dei trionfo per eliminare la causa dell'inconveniente. Fu stabilito che d'ora innanzi nessuno potesse essere contemporaneamente vassallo delle due corone; chi si trovava in questa condizione doveva rinunziare all'una od all'altra parte dei suoi feudi. Fu questo un passo importante verso la separazione delle due nazioni e verso il consolidamento di ciascuna di esse.

Anche verso mezzogiorno Luigi IX provvide alla sistemazione dei suo regno, concludendo un accordo con l'Aragona, col quale, dietro reciproca rinunzia a vecchie pretese territoriali, fu fissato sostanzialmente ai Pirenei il confine tra idue Stati.
Il regno del figlio e successore di S. Luigi, Filippo li (1270-85), si iniziò felicemente con la devoluzione alla corona francese della contea di Tolosa in seguito all'estinzione della linea collaterale dei Capetingi che ne era titolare. Su di essa a dire il vero elevò pretese un altro rampollo della dinastia capetingia, re Carlo di Napoli della linea degli Anjou; ma la corte suprema del regno gli diede torto e stabilì l'importante principio che all'estinzione di una linea collaterale della dinastia i suoi possedimenti rimanevano devoluti per intero alla corona, e che nessuna altra linea collaterale avrebbe potuto accamparvi diritti.

Da questo momento il mezzogiorno della Francia, unito al resto, poté maggiormente risentire le influenze del nord, in modo da permettere l'inizio di un processo di unificazione nazionale.
Anche all'estero aveva già allora cominciato a penetrare l'influenza francese. Già vedemmo come essa fosse divenuta addirittura preponderante in Italia dopo la vittoria di Carlo d'Angiò; ma anche verso oriente, nei paesi prevalentemente latini, vassalli dell'impero tedesco, l'influenza francese si insinuò sempre di più.

Filippo li indusse l'arcivescovo di Lione a prestargli il giuramento di fedeltà; all'atto poi in cui Gregorio X adunò il concilio di Lione (1274), prese il pretesto della protezione del concilio per mandare nella città una guarnigione francese che non fu più ritirata. Così pure re Filippo costruì una fortezza nel vescovado di Vivarais, sulla riva destra del Rodano, dove il territorio dell'impero tedesco si incuneava profondamente nel territorio francese, e costrinse i vassalli del vescovo a prestargli il giuramento feudale.
E finalmente un altro grande feudatario di confine, il conte palatino Ottone di Borgogna, venne unito in matrimonio con una principessa francese, e così reso completamente ligio alla Francia.

Lo stesso movimento di espansione si osserva verso il sud. Il re nel 1284 riuscì ad assicurare alla sua dinastia la successione futura del regno di Navarra; l'erede di questo regno, Giovanna, andò sposa al suo primogenito Filippo IV, recandogli in dote pure i paesi della Champagne e di Brie nella Francia propriamente detta.
Ma ben maggiori prospettive si aprirono al re oltre i Pirenei. Papa Martino IV, (ti pareva!) adirato contro don Pedro d'Aragona per l'aiuto dato ai Siciliani dopo i Vespri, lo dichiarò decaduto dal suo regno ed offrì la corona a Filippo II per il suo secondogenito Carlo di Valois (1284).
Filippo non seppe resistere alla tentazione e l'anno seguente varcò i Pirenei con un forte esercito. Ma gli Aragonesi erano padroni del mare ed impedendo i rifornimenti ridussero I francesi in posizione assai critica. Sia per questo, sia per le epidemie scoppiate nell'esercito, l'invasore dovette battere in ritirata.
Ma Filippo già portava in sè i germi della fine, e infatti, fatti morì il 5 ottobre 1285 a Perpignano ai piedi dei Pirenei. La sua morte segnò pure la fine dell'avventura aragonese, per fortuna della Francia, nel cui naturale programma di sviluppo non poteva rientrare, nè lo voleva, l'espansione oltre i Pirenei.
Dal punto di vista interno il regno di Filippo li segna un progresso nell'organizzazione monarchica della Francia. Noi vediamo ora i grandi vassalli completamente devoti al re, il quale d'altro canto seppe pure giovarsi delle classi inferiori della popolazione. Un uomo di bassi natali, Pierre de la Brosse, che fungeva da chirurgo a corte, godé di grandissima autorità ed influenza nei primi anni del regno di Filippo li. Alla fine fu domato dall'odio della nobiltà cui Filippo ebbe la debolezza di sacrificarlo; il che non toglie però che egli continuò a circondarsi anche in seguito di uomini d'origine borghese specialmente della classe dei legisti, i quali sotto i re successivi salirono anche a maggior potenza.

Inoltre - cosa importantissima - Filippo li rese accessibili i feudi alla borghesia; fu una notevole vittoria dell'elemento più moderno del capitale sulla vecchia aristocrazia feudale. Sotto di lui incontriamo pure per la prima volta la concessione di titoli di nobiltà a borghesi.
Più ancora di Filippo li ci appare animato da uno spirito di modernità il suo successore Filippo IV, detto il Bello (1285.1314).Egli è un precursore della monarchia assoluta dei secoli successivi, un monarca il quale non esitò a sfruttare tutte le risorse dello Stato, tutte le energie della nazione per accrescere la propria potenza; tuttavia egli giovò pure all'avvenire della Francia ed al consolidamento dell'autorità dello Stato; tenendo infatti alto il prestigio della monarchia questo re tenne alta l'idea della potestà civile e difese gli interessi dello Stato nazionale. La figura di Filippo IV ad ogni modo, bisogna convenirne, é tutt'altro che simpatica; l'egoismo e la durezza inesorabile formano I tratti più salienti della sua indole.

Il primo scopo che il nuovo re si propose fu quello di diventare completamente padrone in casa sua. E quindi, per estirpare l'influenza inglese in Francia, approfittò dell'opportunità che il suo contemporaneo re Edoardo I d'Inghilterra (1272-1307) si trovò impegnato nelle lunghe guerre per l'assoggettamento del Paese di Galles e della Scozia, per spogliarlo con l'astuzia e con la forza dei suoi possedimenti francesi. Ma Edoardo non era un Giovanni Senza Terra; difese strenuamente i suoi diritti e la nazione inglese lo seguì in tali rivendicazioni; inoltre egli si alleò con altri nemici della Francia, come il re tedesco Adolto di Nassau, e soprattutto il conte di Fiandra, Guido di Dampierre che la comunità di interessi spingeva ad unirsi strettamente con Edoardo. Anch'egli infatti si vedeva minacciato da Filippo, il quale nella lotta scoppiata tra il conte e il patriziato delle città di Fiandra aveva preso le parti di quest'ultimo per accrescere l'influenza francese in quella regione. Anzi Filippo, con la connivenza del partito francofilo delle città fiamminghe, i così detti liliards, riuscì a conquistare le Fiandre (1299). Ma il suo dominio fu di breve durata. Il sentimento nazionale provocò una reazione che abbatté prima il predominio del patriziato traditore e poi si volse contro I francesi.

Il movimento partì da Bruxelles, dove il popolo si sollevò il 17 maggio 1302 ed uccise tutti i francesi (qualcosa di analogo ai Vespri Siciliani di venti anni prima}. Ben presto poi il moto popolare si propagò alle altre città che anch'esse abbatterono il giogo straniero. E quando un forte esercito francese accorse ai ripari, subì presso Kortrik (Courtrai) nella «battaglia degli speron» una disfatta irreparabile.
Negli anni successivi i francesi, é vero, ottennero qualche successo, ma in conclusione le Fiandre riuscirono a mantenere integra la propria indipendenza politica; solo i Valloni caddero temporaneamente sotto il dominio francese.
Anche di fronte all'Inghilterra Filippo IV non raggiunse il suo scopo. Le ostilità furono troncate nel 1298 sulla base dello statu quo e la pace venne suggellata mediante matrimoni tra i membri delle due dinastie. Edoardo I benché già vecchio sposò in seconde nozze Margherita, sorella di Filippo, ed il suo primogenito, Eduardo Il, ebbe la mano della figlia del re di Francia, Isabella; come figlio di lei, al momento dell'estinzione della linea principale dei Capetingi, Edoardo li d'Inghilterra accampò in seguito pretese alla corona di Francia.
La politica interna di re Filippo il Bello mirò ad aggiogare tutte le forze vive del paese alla volontà della corona ed ai suoi interessi, a fare della monarchia il fattore principale di tutta la vita nazionale. Già sotto gli immediati predecessori del re, il governo si era accentrato nella corte regia, la curia regis, presso la quale i grandi del regno solevano darsi convegno; ma ora ogni ingerenza di costoro nell'amministrazione fu completamente eliminata ed un consiglio della corona, composto di persone devote e ligie ai voleri del re, divenne il vero e proprio organo del governo dello Stato.
Anche nel supremo tribunale regio, il parlamento di Parigi, che fungeva da tribunale d'appello per tutto il regno, l'elemento baronale fu posto in disparte; i prelati che all'inizio vi sedevano anch'essi ne furono addirittura esclusi poco dopo la morte di Filippo (con una ordinanza reale del 1319); e sempre più prevalse nel parlamento l'autorità dei legisti, ligi ai voleri deIla corona.

Nei demani della corona il re governava mediante propri funzionari che avevano soppiantato gli organi dell'ordinamento feudale, i senescalchi e balivi, ed agli ordini di costoro i prevosti. Essi avevano insieme competenza amministrativa e giudiziaria; nelle loro mani era anche il comando militare. Ma questi funzionari regi invasero pure spesso la sfera della giurisdizione patrimoniale dei feudatari che Filippo si impegnò in tutti i modi di spogliare dei loro antichi privilegi ed assoggettare al suo potere. La nobiltà inoltre perdette per opera sua, come classe, l'antico carattere, perché il re vi mescolò largamente elementi borghesi nobilitati da lui. Viceversa egli aggravò gli obblighi di servizio militare della nobiltà, restrinse o soppresse il diritto di batter moneta dei grandi baroni, assoggettò i nobili alla tortura contro il vecchio privilegio che ne escludeva la loro classe, e persino proibì, almeno temporaneamente, i tornei perché non sottraessero braccia alla difesa nazionale ed alla guerra, vale a dire agli scopi ed agli interessi della corona.

L'intero paese poi subì una pressione tributaria sino allora mai vista, che Filippo esercitò con l'aiuto della Chambre des conies, il supremo ufficio finanziario da lui creato ed organizzato; e vi si aggiunsero divieti di esportazione, alterazioni di moneta, ecc. Persino nella vita privata di tutte le classi sociali la monarchia si ingerì mediante leggi suntuarie. La convocazione di rappresentanti delle città del regno, fatta in alcuni casi dalla corona, non mirò in fondo anch'essa che ad accrescere la potenza della corona medesima, la quale se ne valse per controbilanciare il potere della classe feudale.

Questo governo dispotico provocò delle reazioni che si fecero sentire già sotto lo stesso Filippo IV con frequenti torbidi interni e complotti antidinastici della nobiltà; ma anche più ne subì le conseguenze dopo la morte del re (29 novembre 1314) il suo primogenito e successore Luigi X, che fu costretto a sacrificare al malcontento generale parecchi dei principali strumenti del dispotismo paterno ed a fare considerevoli concessioni alla nobiltà, in seguito alle quali fu ripristinato lo stato di cose vigente a tempo di Luigi IX. Tutto ciò peraltro non arrestò il processo di esaltazione dell'autorità della corona.
Morto prematuramente Luigi X (9 luglio 1316) senza figli maschi {cosa che accadeva per la prima volta da che i Capetingi sedevano sul trono francese), gli successe invece della figlia, che venne tacitata con la concessione della Navarra, il fratello Filippo V, e, morto anche quest'ultimo nel 1318 lasciando solamente figlie femmine, salì al trono l'ultimo dei fratelli, Carlo IV.

Gli ultimi due Capetingi, più somiglianti al padre che non Luigi X, strinsero nuovamente i freni del governo, per quanto si siano impegnati di vivere in buona armonia con la nazione. Questo giovò a Filippo V allorché si propose ed ottenne di consolidare per l'avvenire ed accrescere le risorse della corona dichiarando inalienabili i demani regi e revocando tutte le donazioni di tali beni che erano state fatte per lo avanti. Più vaste mire mostrò di nutrire Carlo IV. Egli sperò, con l'aiuto del papato, ligio alla Francia, di poter ottenere la corona tedesca a discapito di Ludovico il Bavaro, ma non vi riuscì.

Viceversa la debolezza dire Edoardo Il d'Inghilterra gli offrì la possibilità di rendere vacillante la posizione degli inglesi nei loro possedimenti del sud­ ovest della Francia. La breve durata del suo regno peraltro gli impedì di ottenere ulteriori risultati; anch'egli venne a morte precocemente (1 febbraio 1328) senza figli; nacque bensì una creatura postuma, ma era una femmina. Sino alla nascita di quest'ultima tenne la reggenza Filippo di Valois, figlio di un fratello di Filippo II e quindi nipote di Luigi il Santo; ed a lui i pari di Francia decisero spettasse ora la corona, respingendo le pretese di re Edoardo li d'Inghilterra, figlio della figlia di Filippo IV; essi preferirono al parente più prossimo della linea femminile il discendente in linea maschile conformemente al sistema seguito per i due re immediatamente antecedenti, ma senza dubbio anche per ragioni d'indole nazionale.

Così la dinastia dei Valois successe a quella dei Capetingi. Qui però noi dobbiamo arrestarci e ritornare ancora una volta a Filippo IV per rivolgere una particolare attenzione al sue conflitto con papa Bonifazio VIII ed alle conseguenze che ne derivarono.

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LA SCONFITTA DI BONIFACIO VIII

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Era, si può dire, fatale che tra papa Bonifacio VIII, l'energico campione delle più sconfinate pretese clericali, e Filippo IV, uno dei primi rappresentanti del concetto moderno dello Stato, dovesse scoppiare un conflitto. Sin dal XII secolo lo Stato aveva cominciato a tassare anche i beni e redditi ecclesiastici, mentre la chiesa non voleva riconoscere questo diritto al potere civile, se non tutt'al più in casi eccezionali e previa l'autorizzazione del papa.

Ora quando sulla fine del XIII secolo i re di Francia e d'Inghilterra ad onta di tutto iniziarono a tassare di proprio arbitrio il clero, Bonifacio credette di non dover tollerare questo. Ed il 25 febbraio 1296 emanò una bolla (detta dalle parole iniziali Clericos laicis), in cui rivendicò solo a sé il diritto di imporre tributi sui beni ecclesiastici e minacciò la scomunica contro l'autorità laica che mettesse tasse di questo genere e gli ecclesiastici che le pagassero.

Ma erano ormai passati i tempi in cui le parole minacciose della curia avevano dettato legge ai popoli ed ai governi. Mentre in Inghilterra il re senza curarsi minimamente della bolla proseguì a tassare il clero, Filippo IV volle far sentire al vicario di Cristo il peso della sua mano e gli restituì il colpo emanando un divieto generale di esportazione dell'oro e dell'argento, ed impedendo così alla curia di riscuotere dalla Francia le entrate in contante.

Il dissesto finanziario piegò Bonifacio; egli interpretò con una nuova bolla del luglio 1297 il suo precedente atto in maniera che sostanzialmente se lo rimangiò. E la santificazione di Luigi IX, appunto allora compiuta dal papa, sembrò suggellare il ritorno delle buone relazioni tra Roma e la Francia.
Ma gli attriti erano semplicemente sopiti, anzi, benché non apparisse, divennero più profondi. Quando nel 1298 il papa offrì la sua mediazione per metter fine alla guerra tra l'Inghilterra e la Francia, Filippo rispose che accettava soltanto la mediazione del privato cittadino Gaetani, e dichiarò ostentatamente che la potestà civile nel suo regno spettava a lui solo e che quindi non avrebbe mai permesso l'ingerenza o la supremazia di nessuna autorità estranea in materia civile.

Se questa dichiarazione intese dare un ammonimento al papa, questi o non lo comprese o non ne tenne conto. Ed il suo orgoglio anzi aumentò a dismisura per la splendida riuscita del giubileo da lui indetto. Egli aveva proclamato che chi volesse purgarsi dei propri peccati doveva durante l'ultimo anno del secolo recarsi a Roma a pregare sulle tombe degli apostoli e dei santi; ed aveva promesso le più larghe indulgenze, valendosi del potere che come successore di Pietro gli dava il possesso delle chiavi del paradiso.

All'invito risposero centinaia di migliaia di persone. Per le vie della città eterna si stiparono per tutto l'anno folle di pellegrini, ed il papato vi guadagnò in autorità ed in denaro sonante; giacché naturalmente le indulgenze non si ottenevano gratis ed ognuno dovette deporre il suo obolo nel tesoro apostolico.
La solennità nel suo complesso assunse il carattere di una specie di grandiosa rivista dell'esercito dei fedeli schierato attorno al suo supremo pastore. Tanto più Bonifacio si stimò padrone del mondo; “il pontefice romano, egli proclamò, regna su tutti i re e su tutti i regni e su ogni creatura umana; tutti i credenti in Cristo, per quanto alto sia il loro rango, devono sottostargli, e se smarriscono la retta via debbono accogliere i suoi mandati ed i suoi ammonimenti come un malato una medicina salutare”.

A Bonifazio non doveva però mancare occasione di sperimentare in pratica quanta poca consistenza avessero tali pretese. Re Filippo IV infatti nel 1301 fece imprigionare e processare sotto l'accusa di lesa maestà il vescovo Bernardo Saisset di Pamiers che, fungendo presso di lui da legato pontificio, gli si era mostrato poco ossequiente. La risposta non si fece attendere; Bonifacio emanò una bolla rovente (Ausculta fili: 5 dicembre 1301) in cui, oltre a lagnarsi duramente di altri torti, esigeva l'incondizionata liberazione di Bernardo:
«A nessuno venga in mente di farti credere», dice il papa, alludendo manifestamente alla dichiarazione fatta da Filippo nel 1298, «che tu non abbia chi stia al di sopra di te e che tu non debba essere subordinato alla chiesa e al pontefice».
E soggiunse minacciosamente: «Chi nutre queste idee, erra, e chi persiste nell'errore é un eretico».

Contemporaneamente il papa convocò a capitolo in Roma per l'autunno successivo i vescovi francesi allo scopo di studiare sotto la sua presidenza il modo migliore di ricondurre sulla retta via il re ed il suo regno.
Di fronte a questo che era un vero e proprio guanto di sfida, il primo pensiero del re fu di assicurarsi l'appoggio della nazione. E, mentre proibiva, sotto minaccia di pene gravissime ai vescovi francesi di recarsi a Roma, Filippo allo scopo di aizzare le suscettibilità dei suoi, fece divulgare un falso testo della bolla Ausculta fili, che in forma recisa e senza sottintesi metteva in bocca al papa l'affermazione che il re era suo subordinato anche in materia di affari temporali.
Dopo ciò il re chiamò a se i rappresentanti della nazione: prelati e nobili, nonché rappresentanti delle maggiori città. Fu la prima convocazione generale degli Stati avutasi in Francia, giacché la corona aveva bensì anche in tempi precedenti convocato i rappresentanti della borghesia per consigliarsi e per assicurarsi il loro appoggio; ma una convocazione contemporanea di tutti e tre gli Stati non si era mai ancora avverata. L'anno 1302 assisté alla nascita degli Stati generali (Etats généraux).
Ma i passi fatti unanimemente dai rappresentanti della Francia presso il papa, malgrado lasciassero comprendere la loro solidarietà col re, non riuscirono ad arrestare Bonifacio sulla via per la quale si era messo, tanto più che una notevole parte dei prelati, contravvenendo ai voleri del re, aveva preferito ubbidire al suo capo spirituale e si era recata a Roma.
In risposta Filippo confiscò i loro beni. A sua volta Bonifacio rincarò la dose pubblicando una nuova bolla in data 18 novembre 1302 in cui diceva:
«Non vi é che una sola santa chiesa, e questa ha un sol corpo ed un solo capo, che è Cristo ed in qualità di suo rappresentante Pietro, nonché il suo successore, il papa. Al papa perciò appartengono ambedue le spade, la spada spirituale che egli stesso maneggia, e la spada temporale che egli ha affidato ai ren. "la Chiesa ha due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa; quella per mano del sacerdote, questa per mano del re ma dietro indicazione del sacerdote" (in altri termini qui si afferma che il potere civile deriva da una semplice delegazione dei potere spirituale e gli rimane subordinato, é dipendente da esso). Se pertanto i re smarriscono la retta via, l'autorità spirituale ha diritto di giudicarli. Certo, anche chi esercita questa autorità é un uomo, ma il suo potere non é umano, ma divino; chi si oppone quindi a siffatto potere, é renitente alla volontà di Dio, e per ogni creatura umana che voglia guadagnarsi la beatitudine eterna è assolutamente necessaria l'ubbidienza al sommo pontefice romano».

Fra tutti gli atti ufficiali emanati dalla curia romana la bolla Unam sanctam, di cui ora abbiamo accennato il contenuto, rappresenta il non plus ultra della presunzione clerico-papale. E si dice che Bonifacio l'abbia redatta personalmente. Ma anche altre penne vennero messe in movimento, come al tempo della lotta per le investiture, da questo riaccendersi del conflitto tra il potere spirituale e il potere temporale.

Germogliò tutta una letteratura di scritti polemici, dei quali gli uni sostennero i diritti dello Stato, gli altri i diritti della chiesa, argomentando come lo permettevano le risorse della scienza del tempo e nelle forme ad essa consuete. Tra i difensori del papato emersero specialmente i domenicani. Uno di essi, Egidio da Colonna, che morì nel 1316 arcivescovo di Bourges, nel suo trattato «Del potere spirituale» arrivò a sostenere che “non solo la sovranità politica, ma la stessa proprietà privata era un dono della chiesa ed era subordinata alla chiesa”; ed il suo confratello Jacopo da Viterbo dichiarò il “papato la fonte e la misura di ogni potere terreno, il papa la fonte di tutte le leggi, leggi che obbligano ogni creatura umana, salvo lo stesso legislatore. È naturale che per questo autore il potere spirituale sia la luce, il potere temporale il colore che esiste solo in grazia della prima”.

Dall'altra parte vediamo invece i sostenitori della monarchia negare, ricorrendo alla teoria del diritto naturale, il carattere universale del potere spirituale, segnargli dei limiti, e stabilire su basi diverse i rapporti tra lo Stato e la chiesa. Essi dicono: “Anche la potestà regia, deriva direttamente da Dio e sta accanto alla potestà spirituale del papa come una autorità di pari grado; ciascuna di esse impera nella propria sfera, e quindi l’autorità ecclesiastica non deve ingerirsi in materia civile come il potere civile deve astenersi dal prendere ingerenza negli affari della Chiesa. I beni materiali di quest'ultima sono poi soggetti alla vigilanza dello Stato, che in caso di abuso può toglierglieli. Se la chiesa può aver dei beni, gli ecclesiastici non debbono personalmente possederne; il fatto che il clero si sia tanto allontanato, come oggi avviene, dalla povertà evangelica costituisce un traviamento, e si ha da cercare di ricondurlo alla sua missione religiosa che é soltanto quella di custodire il dogma, amministrare i sacramenti ed esercitare la cura delle anime. Anche la giurisdizione ecclesiastica era ricondotta entro i suoi limiti naturali. Il clero nazionale poi in materia civile é subordinato allo Stato, cui deve pure pagare le imposte, né al papa può essere permesso di ingerirsi in questo campo”.

Notevole é in questi ultimi scritti anche l'intonazione nazionale-patriottica: i loro autori si mostrano animati da un profondo sentimento nazionale e da un vivo spirito di indipendenza. La Francia - questo é il loro ritornello costante - non tollererà mai che da qualsiasi parte si tenti di arrestarla o di impacciarla nella sua naturale evoluzione. E quindi questa letteratura francese, benché occasionata dal conflitto tra il papato e la corona, si appunta innegabilmente anche contro l'impero; il re, troviamo detto, è imperatore nel suo regno. Anzi, a dire il vero, un'altra corrente, rappresentata specialmente da Pierre Dubois, appartenente alla classe dei legisti già allora influentissima in Francia, va ancora più in là; essa rivendica alla Francia l'onore della dignità imperiale, in armonia al primato che questa nazione vanta su tutta la cristianità.

Naturalmente queste polemiche letterarie non decisero il conflitto tra il papa e la corona francese. Bonifacio invece lo acuì, riconoscendo ora in Sicilia la dominazione aragonese ed in Germania Alberto d'Absburgo, che all'inizio non aveva voluto riconoscere. Ed inoltre si preparò a colpire il suo avversario con l'anatema che in passato aveva portato ai piedi del papa tanti principi potenti e superbe corone.

Ma Filippo lo prevenne. Alleandosi con un partito d'opposizione esistente in seno alla stessa chiesa contro Bonifacio, la cui elezione considerava illegale perché fatta mentre era ancor vivo il suo predecessore, e dopo essersi nuovamente assicurato dell'appoggio della nazione, il re osò tacciare il papa di eresia, accusandolo inoltre di stregoneria e persino di vizi contro natura.
Nè basta, perché spedì in Italia uno dei suoi consiglieri, Guglielmo di Nogaret, un originario della Francia meridionale, assetato di vendicare il sangue dei suoi antenati sparso nella strage degli Albigesi, munito di pieni poteri e di abbondanti mezzi finanziari, con l'incarico di dare aiuto agli avversari del papa e di impedire ad ogni costo la pubblicazione della scomunica.

Pare che l'intenzione di Filippo fosse propriamente quella di impadronirsi della persona del papa e di trascinarlo in Francia per farlo giudicare da un concilio. A tale scopo il Nogaret si unì ai romani Colonna, i nemici mortali del papa e della sua famiglia, e lo sorprese nella sua città nativa di Anagni la vigilia del giorno in cui doveva esser letta pubblicamente la scomunica (7 settembre 1303).

Nogaret con in prima fila i Colonna, aveva organizzato un vero e proprio assalto al palazzo di Anagni, con il concorso anche dei cittadini di Anagni. Alla sera il palazzo - abbandonato da servi e prelati in fuga - era in mano ai congiurati. L'unico a non fuggire fu Bonifacio. Imperturbabile si vestì con tutte le sue insegne di papa, con tiara in testa, il bastone pastorale in mano, e si sedette sul trono in attesa dei drammatici eventi.
L'irruzione nelle stanze papali dei ribelli era capeggiata oltre che dal Nogaret, da Sciarra Colonna; quest'ultimo dopo aver ricoperto di ingiurie Bonifacio, minaccioso gli intimò di reintegrare i due cardinali Colonna destituiti, se voleva salva la vita. Bonifacio pieno di orgoglio, fece l'indignato, respinse le condizioni e con tono sprezzante sporgendo in avanti e scoprendo la nuca gli gridò in faccia "ecco la mia testai". Sembra - almeno così si racconta ma non ci sono serie testimonianza - che Nogaret (altri dicono Sciarra) a quel gesto di sfida abbia schiaffeggiato il papa con il suo guanto di ferro. Di sicuro è che fu maltrattato e oltraggiato, soprattutto dal Colonna.

Nogaret - com'era del resto il compito affidatogli - voleva arrestarlo e portarlo a Parigi, il Colonna invece lo voleva morto.Per decidersi su cosa fare impiegarono tre giorni con tanto imbarazzo dei loro seguaci. Nel frattempo la scena della violenza, dello schiaffo, dei maltrattamenti fatti al papa, si era diffusa fuori dal palazzo, per tutta Anagni, e i cittadini - che prima avevano favorito e partecipato perfino all'assalto - a difesa del loro illustre concittadino questa volta l'assalto lo ripeterono ma per liberare Bonifacio e mettere in fuga gli indegni cospiratori.

La sera stessa Bonifacio si affacciò a ringraziare e a benedire i suoi concittadini salvatori. Rimase ad Anagni ancora per qualche giorno, poi non sentendosi sicuro nella sua stessa città, volle far ritorno a Roma e per farlo volle mettersi sotto la protezione degli Orsini. Il 25 settembre faceva il suo ingresso a Roma scortato da quattrocento cavalieri, accolto trionfalmente dal popolo tripudiante per lo scampato pericolo. Ma lo attendeva l'ultimo suo fatale errore.
Ancora una volta Bonifacio si era fidato di persone sbagliate, gli Orsini si erano finti protettori, lo avevano scortato fino a Roma, ma poi finite le feste, non lo mollarono, lo tennero prigioniero con chissà quali oscuri progetti. Questo tradimento fu l'ultimo colpo per un papa superbo che aveva una autentica divinizzazione della propria persona.

Non sappiamo se dopo i maltrattamenti di Anagni, rimase stroncato più nel fisico oppure dopo questo tradimento stroncato più nel morale, sappiamo solo che febbri forti l'incolsero e quindici giorni dopo, 1'11 ottobre, moriva. Fu sepolto a S. Pietro; a ricordarlo Arnolfo del Cambio con uno stupendo monumento nella cappella Caetani, che Bonifacio si era fatta costruire nella basilica di S. Pietro di allora.
Gregorovius così commentò quel monumento: "è il monumento del papato medievale, che le potenze dell'epoca seppellirono con lui... fu l'ultimo papa a concepire l'idea della Chiesa gerarchica dominatrice del mondo...

Come abbiamo visto in tutto il suo operato questo papa aveva una mania di grandezza. Illudendosi di essere un grande papa che doveva essere tramandato ai posteri, aveva - con questa smodata ambizione della fama postuma - con lui ancora vivo, fatto disseminare un gran numero di sue statue in ogni luogo, a Orvieto, Bologna, Anagni, Laterano, S. Pietro e un numero infinite di chiese.
Ma invece della fama, appena spirato, i suoi nemici profanarono anche la sua morte, misero in giro voci secondo le quali sarebbe morto nella più cupa disperazione attanagliato da terribili rimorsi.

Sul suo trapasso sono state scritte tante cose, tante buone e tante cattive. Il cardinale Stefaneschi testimoniò con altre sette cardinali alla dipartita scrisse che la sua morte fu tranquilla, serena, e confortato dagli ultimi sacramenti.

Ferreto da Vicenza scrisse invece che “...fu invaso da spirito diabolico, battendo furiosamente la testa contro il muro, 'fino a far sanguinare la testa incanutita”, Francesco Pipino nel suo "Chronicon" scrive che "nelle convulsioni si mordeva le mani come un cane”.
Altri raccontarono cose ignominose, che lo Scartazzini nella sua "Enciclopedia Dantesca” le riportò tutte con una certa acrimonia.

Alcuni rispolverarono la maledetta sorte che aveva predetto con una lapidaria frase Celestino V al suo carceriere "è entrato come una volpe, ha regnato come un leone, morirà come un cane".

Dante (indubbiamente anche per motivi personali, per le dolorose ripercussione che ebbero nella sua vita le lotte a Firenze causate da Bonifacio) gli diede un posto all'Inferno (XXVII, 85) chiamandolo "Lo principe de' navi farisei", anche se poi indignato per la condotta di Filippo il Bello e il suo sacrilego attentato fatto ad Anagni dai suoi emissari, lo paragonò a Cristo in croce, e lo mise nel Purgatorio (Purg. XX,86-93).

A denigrarlo, lui e la sua opera, ci si mise poi papa Clemente V, per aver lasciato il Caetani la Chiesa in uno stato pietoso a causa della sua distruttiva boria e intransigenza a oltranza, poi seguito – paradossalmente - dal breve e arrendevole pontificato del mite Benedetto Xl (1303-1304).

Nella lacrimevole fine dell'uomo che non aveva voluto riconoscere al di sopra di sé alcuna autorità terrena la pubblica opinione vide il dito di Dio che aveva inteso umiliare l'orgoglio del Gaetani. Tuttavia il collegio dei cardinali si mostrò così compreso del bisogno di tutelare la dignità della Santa Sede, che con rara unanimità e dopo tre soli giorni di conclave diede (22 ottobre 1303) un nuovo capo alla cristianità nella persona del generale dei domenicani, Nicola Bonvicini di Treviso, uomo di bassi natali. Per lo spazio di 75 anni fu questo l'ultimo conclave tenutosi in Roma. Il nuovo eletto, che prese il nome di Benedetto Xl (1303-1304) era stato partigiano di Bonifacio, al pari del resto di tutto l'ordine cui egli apparteneva; ma non trovò l'energia necessaria a proseguire nella politica del suo predecessore. Restituì anzi ai Colonna i loro beni e revocò le disposizioni emanate da Bonifacio in odio al re di Francia. Soltanto dopo che, di fronte al fermento a lui ostile manifestatosi in Roma, si trovò costretto a fuggire a Perugia, la cittadella del guelfismo italiano, il papa assunse un'attitudine più virile e si decise a condannare per lo meno gli immediati esecutori e complici dell'attentato di Anagni. Se non che, poco dopo, il 7 luglio 1304 lo colse la morte a Perugia.

Ed appunto a Perugia fu tenuto il nuovo conclave. In seno al collegio dei cardinali si formarono due partiti diametralmente opposti; da un lato i bonifaciani o il partito patriottico italiano, dall'altro i francofili. Ne l'uno né l'altro riuscì a raggiungere la maggioranza necessaria per l'elezione del papa. I bonifaziani allora credettero di spuntarla proponendo l'arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, un guascone, che, sebbene suddito di re Filippo, aveva fama di nemico della Francia e di fautore della politica di Bonifacio VIII. Ma, quando i francesi sondarono l'ambizioso prelato, s'avvidero subito che la tiara gli stava assai più a cuore che le sue convinzioni, e perciò gli dettero anche i loro voti; e Bertrando venne eletto il 5 giugno 1305 assumendo il nome di Clemente V (1305-1314).

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Chiesa assira d'Oriente

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La santa Chiesa assira d'Oriente (in siriaco ʿedtā d-madnḫā) è una Chiesa cristiana, nota anche come Chiesa nestoriana.

A livello teologico, si caratterizza per il riconoscimento dei soli primi due Concili ecumenici e di Nestorio come santo. La Chiesa assira d'Oriente non è in comunione con le Chiese ortodosse orientali poiché queste ultime riconoscono, invece, la validità dei primi tre Concili ecumenici.

Nata in Mesopotamia, la Chiesa assira ha conosciuto una rapida espansione che ha portato i suoi missionari a fondare comunità fino all'India, dove è nota con il nome di "Chiesa siro-caldea". Inoltre fu la prima a portare il cristianesimo in Cina. La comunità monastica nestoriana stabilitasi a Chang'an (antico nome di Xi'an, capitale della Dinastia Tang) fu, nel VII secolo, la prima documentata comunità cristiana in Cina. Oggi comprende i territori dell'attuale Iraq settentrionale e dell'Iran.
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L'evangelizzazione in India, Cina, Mongolia e Tibet

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Un alto prelato di etnia uiguri, Rabban Marco, venne eletto patriarca con il nome di Yab-Alaha III nel 1281, ed il monaco Rabban Bar Sauma (circa 1220–1294) viaggiò da Pechino a Roma per perorare l'avvio di una crociata assieme ai mongoli contro i Mamelucchi. Fu invitato a colloquio dai cardinali della Curia romana. I porporati gli chiesero: "Qual è la tua fede? Esponi il tuo credo". Rabban Bar Sauma rispose: "Io credo in un Dio nascosto, eterno, senza inizio e senza fine, Padre, Figlio e Spirito Santo, tre ipostasi uguali e non separate. Non c'è tra loro primo o ultimo, né giovane o anziano: essi sono uno quanto alla natura ma tre quanto alle ipostasi. Il Padre è generatore, il Figlio è generato e lo Spirito Santo è procedente".

Un monumento risalente al XIV secolo testimonia l'esistenza a Zhoukoudian nel distretto di Fangshan (non lontano da Pechino) del monastero della Croce. Nel 2003 gli archeologi hanno scoperto che una comunità appartenente alla Chiesa assira continuò a vivere in Cina anche dopo l'editto di Wu Zong, per diversi secoli, pur tagliata fuori da ogni contatto con l'esterno, e continuò ad avere il suo patriarca. A sud del lago Balkash è stato ritrovato un cimitero cristiano risalente al XIII-XIV secolo. I nomi di persona dei defunti sono cristiani, mentre i cognomi sono locali.

La Chiesa d'Oriente sotto i khanati mongoli

Nel XIII secolo la Chiesa d'Oriente contava 27 sedi metropolitane e 250 sedi vescovili, in un territorio che si estendeva dalla Mesopotamia a Pechino (all'epoca Khān bālīq), con vari milioni di fedeli[15]. Alcune popolazioni mongole avevano abbracciato il cristianesimo siro-orientale, amalgamandolo con le loro antiche radici sciamaniche: così fece la tribù Kiyad[19]. Altre tribù di etnia mongola, come i Kherejt (stanziati a nord del lago Bajkal), i naiman, i merkit e gli ongud abbracciarono questa fede[20]. I comandanti (khan) dei mongoli da Shingkor Dokshin (XI secolo) a Kabul Khan (1130-1147) professarono il cristianesimo assiro. Anche il padre di Gengiz khan, Yesugei (1140-1177) ebbe tale fede, così come la nuora, Sorghaghtani Beki (della tribù Kherejt), madre del futuro Gran Khan Kublai (1215-1294)[19]. Appartenne alla tribù dei Kherejt anche il maggior rivale di Gengiz khan, Toghril khan. Suo padre, Qourdjaqouz Khan, nelle fonti è ricordato come “re siriaco”[21]. Dopo la conquista mongola della Cina (1206), la chiesa assira riprese vigore e nuove comunità vennero fondate.

Nel 1258 le truppe del Khan Hülegü assediarono e conquistarono Bagdad, sconfiggendo i musulmani. La dinastia di Hülegü dominò per circa un secolo il territorio racchiuso tra i fiumi Indo, ad est, e Tigri, ad ovest. Iniziò un lungo periodo di pace, che consentì alla chiesa d'Oriente di risollevarsi. La nuova capitale dell'Ilkhanato (così si chiamò il regno fondato da Hülegü) fu posta a Maraga, nell'Altopiano iranico. Poco tempo dopo la sede della Chiesa d'Oriente vi fu trasferita da Bagdad. Grazie al patriarca Yab-Alaha III (1281–1317) i cristiani conobbero una fase di prosperità, che ebbe influenza anche nelle arti. Furono costruite molte chiese; risalgono a questo periodo anche gli ultimi conventi fondati in Persia. Essi furono: il monastero di Bar Sauma, vicino a Tabriz (fu visitato da Marco Polo) il nuovo monastero di Maraga e quello dedicato a San Giovanni Battista, sempre a Maraga (fondato da Yab-Alaha III nel 1301).[22]

Dopo la conversione degli Ilkhan all'islam (a cominciare da Gaykhatu nel 1295) per la Chiesa assira iniziò un periodo di decadenza. La Chiesa si ripiegò su se stessa ed avviò nuovamente una lotta per la sopravvivenza. I legami con le comunità dell'Asia orientale si sciolsero ed esse decaddero dopo poche generazioni, tranne quelle dell'India.


https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_assira_d%27Oriente
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Raimondo di Peñafort

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Raimondo di Peñafort (Santa Margarida i els Monjos, 1175 – Barcellona, 6 gennaio 1275) è stato un religioso spagnolo, appartenente all'Ordine domenicano; è stato proclamato santo da papa Clemente VIII nel 1601.

Biografia
Raimondo stesso volle far conoscere di sé il meno possibile, inducendolo a nascondere ogni documento circa la sua nascita; sulla base delle cronache contemporanee, che attestano la sua morte intorno ai cento anni, si può concludere che nacque non prima del 1175.

Frequentò la Cattedrale di S. Croce a Barcellona. Completati gli studi, e compiuti i vent'anni, su invito del Vescovo, Raimondo aprì una scuola per conto suo nei chiostri della Cattedrale come insegnante di Logica e di Retorica.

In seguito, studiò Diritto Canonico all'Università di Bologna e nella medesima città, dopo aver conseguito la "Licenza", insegnò diritto, ricevendo uno stipendio dall'amministrazione cittadina. L'influenza del docente Reginaldo da Bologna favorì la sua conversione all'ordine dei frati predicatori. Nel 1218 Berengario IV di Palali, vescovo di Barcellona, dopo un pellegrinaggio a Roma, era giunto a Bologna per chiedere a Domenico di Guzmán qualche frate predicatore per una fondazione nella sua diocesi. Avendo udito grandi elogi di Raimondo, gli chiese di insegnare nel seminario che intendeva fondare per l'educazione del suo clero, conformemente ai decreti del Quarto concilio lateranense. Raimondo accettò e seguì a Viterbo il vescovo, il quale, alla corte di Onorio III, incontrò Domenico, dal quale ottenne il personale necessario per la fondazione di un convento.

A Barcellona il vescovo lo elesse canonico della cattedrale e prevosto del capitolo. Intanto Raimondo si sentiva chiamato alla vita religiosa e il venerdì santo del 1222, entrò nell'Ordine domenicano.

Nel 1223 aiutò Pietro Nolasco, che in seguito i cattolici inizieranno a venerare come santo, a fondare l'Ordine dei Mercedari per il riscatto degli schiavi.

Gli fu ordinato di scrivere per i confessori una summa dei casi di coscienza e scrisse Summa de Casibus Poenitentiae. Ebbe importanti incarichi da papa Gregorio IX: fu suo confessore e in seguito fu da lui nominato suo cappellano e penitenziere; inoltre, fu da lui incaricato di raccogliere tutte le Decretali e decisioni pontificie, destinate a sostituire le varie raccolte già esistenti. Questo lavoro, chiamato Liber Extra (o Decretalium Gregorii IX compilatio), fu promulgato in via ufficiale il 5 settembre 1234 dal Sommo Pontefice e presentato all'università di Parigi e di Bologna. Durante la sua permanenza presso la corte pontificia, a nome del Papa, Raimondo diede numerose risposte a consultazioni giuridiche, che furono raccolte con il nome di Dubitalia.

Nel 1238 fu eletto Maestro Generale del suo Ordine, alla morte di Giordano di Sassonia, venerato come beato dalla Chiesa cattolica.

Fu molto impegnato nella lotta contro l'eresia in Spagna e gli era molto a cuore la missione per evangelizzare gli "infedeli". Tanto che spinse Tommaso d'Aquino a comporre un testo per fornire i missionari delle conoscenze intellettuali necessarie a controbattere le obiezioni dei musulmani: Summa contra gentiles.

A settant'anni si ritirò da ogni carica ufficiale, rientrò in patria dove si impegnò per convertire al cristianesimo mori ed ebrei. Morì nel 1275.

Papa Clemente VIII lo ha canonizzato il 29 aprile 1601. La commemorazione liturgica ricorre il 7 gennaio.


https://it.wikipedia.org/wiki/Raimondo_di_Pe%C3%B1afort
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